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sabato 19 dicembre 2015

Attenti ai social network.

La scorsa settimana il cofondatore e CEO di Facebook, Mark Zuckerberg, ha annunciato che insieme alla moglie darà in beneficenza il 99 per cento delle sue azioni della società, che attualmente hanno un valore intorno ai 45 miliardi di dollari. Poco dopo l’annuncio sui social network moltissimi hanno scoperto di essere esperti di filantropia, e hanno litigato tra chi ha difeso la scelta di Zuckerberg e chi l’ha giudicata un’operazione opportunistica “per-pagare-meno-tasse”. All’inizio della settimana un candidato alle primarie repubblicane per le presidenziali negli Stati Uniti, Donald Trump, ha proposto di chiudere i confini per impedire ai musulmani di entrare nel paese, a suo dire l’unica soluzione per evitare altre stragi come quella di San Bernardino in California da parte di due estremisti. Su social network e blog la proposta di Trump è stata definita assurda, impraticabile o geniale a seconda dei casi, con ulteriori litigi, insulti, provocazioni e discussioni infinite e infruttuose. Gli esempi potrebbero proseguire a lungo e portano sempre alla stessa domanda: è Internet che ci rende peggiori?
Sul New York Times di oggi Farhad Manjoo prova a dare una risposta, o per lo meno prova a offrire qualche riflessione sul tema: “Non sarebbe quasi un mondo da sogno, in queste recenti settimane così sovreccitate, vivere liberi dai social media?”. Manjoo non è un vecchio editorialista conservatore e trombone: è un trentottenne giornalista esperto di tecnologia e internet, appassionato di innovazioni, che si occupa di questi temi da anni e in passato ha scritto anche su Slate e sul Wall Street Journal. I toni su Internet sono quasi sempre sopra le righe, dice Manjoo, ma quest’anno lo sono stati più del solito: estremisti di ogni tipo riescono a spiccare nel rumore di fondo e ottenere più visibilità a scapito di chi ha toni più pacati e ragionevoli, rendendo di fatto Internet un posto inospitale. Susan Benesch, docente dell’università di Harvard, spiega: “È diventato così comune incappare in spazzatura e violenza online che le persone ormai hanno accettato la cosa. Ed è diventato tutto così rumoroso da obbligarti a urlare più forte, e dicendo cose più scioccanti, per farti sentire”.
Parte della sovreccitazione online è dovuta ai tempi in cui viviamo e alle notizie che riceviamo, ormai quotidianamente, su attacchi terroristici, uccisioni di massa, sparatorie, razzismo, proteste e violenze di ogni tipo da tutto il mondo. Le informazioni su queste cose vengono condivise rapidamente sui social network e commentate ancora più velocemente, spesso senza pensarci più di tanto o avere un’idea precisa di quali siano le cause e le circostanze in cui si sono verificati determinati fatti. Manjoo scrive che i social network contribuiscono ad alimentare un circolo vizioso di azione e reazione: “La reazione di Internet a una determinata situazione diventa parte e seguito della storia, così da intrappolare i media in una escalation, in un giro infinito di 140 caratteri, di reazioni d’impulso e istantanee”.
Quando Donald Trump dice qualcosa di insulso, come “bisogna chiudere Internet”, le sue parole non vengono solo riprese da qualche giornale o televisione: “diventano un’ondata di contenuti che continuano a ripetersi e a sovrapporsi nelle tue timeline, trasformandosi nella cosa predominante”, spiega Whitney Philips, docente presso la Mercer University e autore di diverse ricerche sui troll online. Una volta che si avvia questo meccanismo si produce una spirale di “contenuti sui contenuti” che in realtà non porta avanti la conversazione ma semmai la dirotta verso battute a caldo, opinioni campate in aria e spesso prive di qualsiasi base oggettiva. Manjoo sul New York Times scrive: “In ogni argomento o sei parte di un gruppo o di un altro: più riesci a esprimere il tuo sdegno aspramente, più reazioni otterrai dall’altra parte”.
Un recente esempio, molto discusso, riguarda l’opinionista statunitense di estrema destra Erick Erickson. In seguito alla pubblicazione di un editoriale sulla prima pagina del New York Times in cui si chiedeva un maggior controllo delle armi in America, Erickson si è procurato una copia del giornale e l’ha crivellata di colpi di pistola. Poi ha scattato una fotografia del New York Times con i buchi lasciati dai proiettili e l’ha pubblicata su Twitter, dove è stata molto ripresa e commentata.
Manjoo ricorda che Internet non fu inventata “per essere così brutta: ai primi tempi, i suoi pionieri avevano in serbo grandi idee sulla capacità del Web di espandere la democrazia”. John Perry Barlow, uno dei più famosi attivisti per la libertà della rete, scrisse nel 1996 una sorta di manifesto in cui auspicava che in futuro il mondo potesse essere “più umano e giusto del mondo creato in precedenza dai governi”. Naturalmente Internet ha avuto nel complesso il merito di creare nuove opportunità economiche, di migliorare il livello di istruzione e di portare più democrazia in molte parti del mondo. Ma le discussioni che nascono online e le interazioni fra gli utenti non sono all’altezza degli ideali espressi da Barlow e da chi creò Internet nei suoi primi giorni.
Secondo Benesch, Barlow ebbe il difetto di pensare che “con maggiori capacità di comunicazione e la possibilità di raggiungere direttamente gli individui si genera un tipo di comunicazione migliore, più gentile e amichevole”. Nella pratica, conclude Manjoo, tutto questo non si è verificato: “Internet può migliorare o peggiorare il modo in cui parliamo con qualcun altro. Per ora, e forse per il futuro prossimo, stiamo andando verso il peggio”
Internet ci rende peggiori ? , "Il Post", 10-12-15.

domenica 13 dicembre 2015

Chi ha paura di dire la verità sugli alieni ?

Stephen Bassett ha 69 anni, sta diventando calvo e ha gli occhi di un colore tra il blu e il verde. Da ragazzo ha letto molti libri di fantascienza, ha costruito modellini di aeroplani e ha vissuto per molti anni in una base militare in cui lavoravano i suoi genitori. Suo padre gli parlava poco e litigava spesso con sua madre, e Basset ha sviluppato tendenze ossessivo-compulsive. Da molti anni Bassett ha un obiettivo: far sì che il governo degli Stati Uniti ammetta di aver nascosto le prove che dimostrano che gli alieni esistono e sono stati sulla Terra. Poco meno di vent’anni fa Basset ha anche capito una cosa: alle persone rapite dagli alieni serviva un lobbista, qualcuno che parlasse di loro e che difendesse i loro interessi davanti al governo degli Stati Uniti. Da circa 19 anni Basset è quindi il primo, e finora unico, lobbista delle persone che dicono di essere state rapite dagli alieni.
Prima di diventare il lobbista di chi sostiene di aver incontrato gli alieni Bassett aveva lavorato per quatto mesi per il Program for Extraordinary Experience Research (PEER), un gruppo di ricerca creato nel 1993 da John Mack, uno psichiatra e saggista vincitore di un premio Pulitzer e morto nel 2004. Il PEER era nato per ascoltare in modo neutrale «tutte le esperienze che sfidano le nostre nozioni di realtà» e, quindi, anche i rapimenti di essere umani da parte degli alieni. Mentre stava lavorando per il PEER da una piccola casa di Cambridge, in Massachusetts, Bassett ebbe un’illuminazione: avrebbe potuto continuare a collaborare con il gruppo di ricerca di Mack per il resto della sua vita, ma non sarebbe cambiato nulla. «Capii che il problema non era di tipo scientifico, era politica», ha spiegato Bassett. Anche se il PEER avesse raccolto un mucchio di prove di incontro tra umani ed extraterrestri, sulla Luna o nel prato davanti alla Casa Bianca, nessuno se ne sarebbe interessato. La “questione aliena” aveva bisogno di essere rappresentata davanti ai potenti, a chi governava.
La questione aliena era piuttosto di moda nell’estate 1996, quando uscì il film Independence Day: Basset iniziò a preoccuparsi, temendo che qualcuno avrebbe potuto avere la sua stessa idea. Smise di collaborare con il PEER, caricò tutto ciò che aveva su una Mazda malconcia e guidò fino a Washington. «Una volta arrivato ho compilato i documenti necessari a diventare un lobbista», ha raccontato.
Finora è stata una battaglia piuttosto solitaria, ma Bassett è convinto che il momento giusto per l’affermazione della sua contorta teoria – che riguarda i Clinton, il loro ex consulente John Podesta e un multi-miliardario morto qualche anno fa – sia arrivato.  Bassett ha detto di volere che il governo ammetta l’esistenza degli alieni prima che in New Hampshire si tengano le primarie delle elezioni presidenziali, il prossimo 9 febbraio: «E posso anche spiegare perché succederà», ha aggiunto.
Dopo essersi laureato al Georgia Institute of Technology Bassett ha passato circa una ventina di anni senza uno scopo preciso, giocando a tennis da professionista, facendo il consulente finanziario e mantenendosi anche grazie a un’eredità lasciatagli dal padre. Poi gli capitò di leggere un libro che cambiò la sua vita. Si intitolava Abduction: Human Encounters with Aliens (“Rapimenti: incontro tra umani e alieni”). L’autore era John Mack, che aveva iniziato a occuparsi della questione con molto scetticismo intervistando decine di persone che dicevano di essere state rapite dagli alieni, e pensando che soffrissero di qualche tipo di malattia mentale. Alla fine delle sue ricerche però non ne era più così sicuro. «Sì, prendo seriamente le storie di queste persone», spiegò nel 1994 al Chicago Tribune: «Sì, penso che stiano dicendo la verità». Bassett – l’ex appassionato di fantascienza senza un chiaro posto nel mondo – trovò finalmente qualcosa a cui dedicarsi.
Nel 1961 l’astronomo Frank Drake disse di aver trovato un’equazione per calcolare il numero di civiltà aliene che stanno cercando di comunicare con noi. Alcuni mesi fa Drake ha detto al Washington Post: «Ne possiamo individuare 10mila, ma ce ne sono molte di più». Considerando quanto è grande l’universo, non è da folli immaginare che ci sia qualcosa oltre a noi. Una teoria è che tutte le avanzate civiltà aliene finiscano distrutte dalla stessa tecnologia che hanno creato, prima di riuscire a mettersi in contatto con la Terra. È una teoria piuttosto cupa, e non c’è da stupirsi se molti esseri umani tendono a preferire un’ipotesi più ottimista: gli alieni esistono, e si sono messi in contatto con noi, ma c’è una cospirazione governativa per non farcelo sapere.
Secondo un sondaggio pubblicato nei primi mesi del 2015 dall’Huffington Post circa la metà degli americani crede nell’esistenza di un qualche tipo di forma di vita aliena, e uno su quattro pensa persino che gli alieni siano arrivati sulla Terra. Nonostante questo per Buffett non fu facile farsi ricevere a Washington dai membri del Congresso degli Stati Uniti. «Nessuno voleva averci qualcosa a che fare», ha detto Bassett.
Dal momento che non riuscì a ottenere un’udienza al Congresso, nel 2013 Basset decise di crearne uno finto: grazie a una donazione di un milione di dollari arrivata da un finanziatore canadese, Bassett pagò 20mila dollari alcuni ex membri del Congresso per passare una settimana al National Press Club di Washington, ascoltando testimonianze sugli alieni. Dalle numerose ore di testimonianze – tra cui quelle di ex ufficiali dell’aeronautica militare che dicevano di aver visto navicelle aliene, o i racconti di animali trovati dissezionati – nacquero alcune buffe storie, ma nessun vero movimento d’opinione che coinvolgesse dei membri del congresso. Poi, alcuni mesi fa, arrivò un importante tweet: lo scrisse il 13 febbraio 2015 John Podesta, che era stato consigliere di Bill Clinton alla Casa Bianca. Podesta scrisse quel tweet 11 mesi dopo essersi dimesso dall’incarico di consigliere speciale di Barack Obama. Podesta scrisse: «Il mio più grande fallimento del 2014: ancora una volta non siamo riusciti a pubblicare in modo chiaro i file sugli UFO». Il tweet era completato dall’hashtag #thetruthisstilloutthere (“la verità è ancora lì fuori”).
Il tweet fu condiviso migliaia di volte e ne parlarono i principali siti d’informazione di tutto il mondo (la maggior parte lo trattò come uno scherzo). Bassett e altri con le sue idee non lessero quel messaggio come uno scherzo. Per loro era qualcosa di grande. Podesta rappresenta infatti uno dei migliori alleati che la questione aliena possa avere: è un appassionato di X-Files che ha chiesto maggiore trasparenza sugli argomenti che hanno a che fare con gli UFO e nell’introduzione che ha scritto per un libro di successo intitolato UFOs: Generals, Pilots, and Government Officials Go on the Record  ha spiegato: «È tempo di capire la verità su quello che c’è là fuori».
Podesta è ora anche colui che si occupa di gestire la campagna presidenziale di Hillary Clinton, e la cosa è stata vista da Bassett e da chi lo segue come una grande notizia. Secondo Basset Bill e Hillary Clinton hanno un importante ruolo nella questione aliena da quando nel 1993 il miliardario Laurance Rockefeller ha iniziato a fare pressioni su di loro per rendere pubbliche tutte le informazioni a loro disposizione sugli alieni. Ci sono infatti prove che dimostrano che nel 1995 Hillary Clinton incontrò Rockfeller nel suo ranch e che un consigliere di Clinton la avvertì con una nota che Rockfefeller «le avrebbe parlato del suo interesse per le percezioni extrasensoriali, i fenomeni paranormali e gli UFO». I Clinton «si stavano occupando del “problema” su forti insistenze di un miliardari, e nessuno se ne occupava», ha detto Bassett.
Come mai tutto questo dovrebbe suggerire che il governo dirà ciò che sa sugli alieni prima delle primarie in New Hampshire? Bassett ha detto: «Penso che il team di Clinton abbia calcolato che non potrà arrivare alle elezioni senza prima aver affrontato il problema degli extraterrestri. Ma che opzioni ha Hillary Clinton? Se annuncia una conferenza stampa e le dà troppa importanza, deve anche spiegare perché lo fa ora e  non l’ha fatto negli ultimi 23 anni. L’alternativa è fare in modo che sia la stampa a farle le giuste domande… così lei può essere libera di decidere cosa e quanto dire». Secondo Bassett il tweet di Podesta è una sorta di esca per i media.
Questa teoria ha però un piccolo problema: sia Podesta che Clinton si sono rifiutati di commentare la questione. Siamo realistici: poche persone prenderanno Bassett seriamente. Bassett ha però speso molto per dedicarsi a quello che lui stesso definisce «il gruppo di pressione meno finanziato della storia» (riceve tra i 15mila e i 20mila dollari l’anno). Bassett non ha molto spazio per il tempo libero, e spesso dorme a casa di alcuni suoi “seguaci”. «Sarebbe bello avere qualcuno con cui condividere tutto questo, o un figlio che da grande potrà viaggiare nello spazio, ma ormai è troppo tardi»,  ha spiegato.
Quella di Bassett può sembrare una strana causa a cui dedicare la propria vita. Ma secondo lui le rivelazioni sugli alieni sono solo il primo passo per qualcosa di più grande: «Una volta scoperta la verità sugli alieni, vedrete che qualcosa cambierà in tutto il mondo, ci sarà un nuovo approccio in tutto. Più trasparenza, più comunicazione tra le nazioni, un periodo di riforme». Secondo lui, se solo i popoli della Terra sapessero che c’è qualcosa là fuori di più grande di noi, allora forse potremmo mettere da parte le nostre piccole differenze, che rischiano di distruggerci. Le persone che pregano per la pace nel mondo sono molte. È in fondo così strano se Basset cerca un po’ di aiuto dall’alto?
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Sotto, video su Stephen Bassett:


mercoledì 2 dicembre 2015

Ragazzi sempre più lenti ?


Gli adolescenti non sanno distinguere gli annunci pubblicitari dai risultati di ricerca di Google. Lo rivela una ricerca di Ofcom che valuta l’alfabetizzazione digitale di bambini e teenager britannici (3-15 anni) e il loro rapporto con i media.  
Stando ai dati rilevati dall’Autorità indipendente delle comunicazioni del Regno Unito, davanti ai risultati di ricerca ottenuti tramite Google, solo un terzo (31 per cento) dei ragazzi di età compresa da 12 a 15 anni, è in grado di capire la differenza tra link di annunci pubblicitari e informazioni vere e proprie. Nella fascia degli 8-11enni questa capacità di distinzione è ancora minore (16 per cento).  

Questo vuol dire che Big G non fa abbastanza per separare in modo più efficace i contenuti pubblicitari da quelli della ricerca. A questo riguardo, ad aprile 2015 negli Stati Uniti l’azienda di Mountain View è finita nel mirino delle associazioni di difesa dei consumatori, accusata di fronte alla Federal Trade Commission di mischiare, in modo scorretto e sleale, pubblicità e intrattenimento su Youtube Kids, un’app creata appositamente per i bambini. Secondo Ofcom, molti minori tendono, peraltro, anche a fidarsi troppo ciecamente dei contenuti informativi avuti grazie a Google.  

I teenager britannici, che guardano un po’ meno la tv e utilizzano maggiormente i tablet, sono sempre più spesso online. Rispetto al 2005, ora il tempo speso su Internet è più che raddoppiato. I 12-15enni ormai passano sul web in media 3 ore e mezza a settimana in più che sulla televisione. Questa maggiore consuetudine degli adolescenti di oggi con le nuove tecnologie non significa, però, più consapevolezza di come funziona il mondo online. 

«Internet consente ai ragazzi di apprendere, scoprire i diversi punti di vista e restare connessi con familiari e amici – spiega James Thickett, Direttore di ricerca di Ofcom. Ma i nativi digitali hanno sempre bisogno di sostegno per acquisire le conoscenze necessarie a navigare online». 

Carlo Lavalle, Gli adolescenti non distinguono tra pubblicità e risultati delle ricerche su Google, "La Stampa", 1-12-15.


sabato 28 novembre 2015

Sopravviverà l'Occidente agli smartphone ?


Al peggio non c'è mai fine, verrebbe da dire osservando questa foto .

Difronte a uno dei più grandi capolavori dell'arte figurativa di tutti i tempi  (La ronda di notte, di Rembrandt), questo gruppo di ragazzi e ragazze non trova di meglio da fare che smanettare con gli smartphone, ignorando completamente la tela.

Un altro segno dell'inarrestabile tramonto dell'Occidente ?




sabato 21 novembre 2015

Perché la Siria ?

La polveriera siriana spiegata attraverso una serie di video e di mappe:






(Qui per la versione esclusivamente in italiano del filmato precedente.)










domenica 20 settembre 2015

La comunicazione digitale ? Non sempre è sinonimo di partecipazione.

Una società i cui membri sono sempre più connessi fra loro grazie alla tecnologia, è anche, per forza di cose, più inclusiva? La risposta, secondo Piero Dominici, professore universitario a Perugia e Madrid, e autore del saggio “Dentro la società interconnessa ” (Franco Angeli) non è necessariamente affermativa. La colpa di quello che è un fraintendimento molto comune – più digitale uguale più partecipazione – è della confusione che spesso si fa fra i concetti di comunicazione e connessione. 

In altre parole, come l’autore sottolinea, non è detto che a un aumento delle capacità comunicative, corrisponda un incremento delle opportunità relazionali. 
Il che ha conseguenze che vanno bel al di là di quanto suggerisce, su un livello molto terra terra, il semplice buon senso: che a una quantità ingente di “amici” su Facebook non corrisponde necessariamente una vita sociale piena. Traslata su un piano più elevato, la dicotomia non risolta fra comunicazione e connessione ha effetti negativi sul rapporto, per esempio, fra cittadini e pubblica amministrazione, o fra diversi gruppi sociali. 

Senza un’adeguata opera di alfabetizzazione digitale, e un’integrazione armoniosa dell’utilizzo dei nuovi strumenti con la capacità di analisi strutturata dei problemi (capacità che precede e va oltre la semplice fruizione da consumatore di dispositivi digitali), la sovrabbondanza di informazioni oggi disponibile, invece di rendere più simmetrici e meno sbilanciati i rapporti di potere fra i diversi soggetti, rischia di aumentare ancor più il divario. 

“Una parte sempre crescente della popolazione mondiale è in Rete (circa tre miliardi di persone n.d.r.) – dice Dominici – il problema è capire quanto questo influisca effettivamente sulla capacità di produrre ed elaborare conoscenza”. 
Un classico esempio, è quello della scuola digitale. Ad una prima adesione entusiasta e acritica all’applicazione di metodologie digitali all’apprendimento, è seguita ed è ancora in corso una riflessione più matura, e scettica verso la visione della tecnologia come panacea o bacchetta magica per supplire ad altre deficienze degli studenti. 

Anche lo stesso concetto di nativi digitali , che a lungo è stato adoperato come etichetta per le nuove generazioni, viene sempre meno utilizzato ed è stato almeno parzialmente smontato da riflessioni autorevoli come quella di Roberto Casati - direttore di ricerca del CNRS all’Institut Nicod a Parigi - in “Contro il colonialismo digitale”. 

In vari Paesi, fra cui l’Italia, è in crescita il fenomeno dell’analfabetismo funzionale, ossia “l’incapacità di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società ”. Colpa del digitale? No, questo Dominici non lo sostiene, rifiutando in maniera consapevole la trita dicotomia fra apocalittici ed integrati. 

La questione non è quella di essere pro o contro il digitale, ma come spiega l’autore, di non “cedere alla tentazione del determinismo tecnologico”, che spiega e giustifica tutto. Il computer, i tablet e gli smartphone sono strumenti fantastici, a patto di non delegare soltanto ad essi la formazione e l’acculturazione degli individui. Quello che conta, insomma non è solo il semplice accesso alle informazioni, ma la creazione di “teste ben fatte”, capaci di analisi critica e autocritica. 

sabato 19 settembre 2015

Una madre che sa mettere in riga il proprio figlio.



Non basta guadagnare qualche soldo per potersi considerare un adulto. Così come l'essere popolari su Internet non giustifica un comportamento arrogante. Una madre americana ha trovato un modo originale per insegnare questi due importanti concetti al figlio adolescente.
Il ragazzino si chiama Aaron e ha 13 anni. Da qualche tempo i suoi video su Youtube stanno ottenendo un certo successo e Aaron si stava montando la testa. Così, dopo essere stato rimproverato dalla madre Estella per averle mentito riguardo ai compiti, il 13enne ha scritto su Facebook che dal momento che ora sta facendo soldi sua madre non ha più il diritto di dirgli che cosa deve fare.
Cattiva idea. Estella ha visto il post del figlio e ha subito pensato a una maniera per fargli abbassare la cresta. Come ha riportato sulla sua bacheca social, la donna ha appeso sulla porta della camera del ragazzo una lettera mirata a dargli una lezione sull'essere responsabili, sul rispetto e sulla finanza. "Il bambino avrà un brusco risveglio oggi dopo quello che mi ha detto la scorsa notte", ha scritto Estella. "Non solo si ritroverà il letto senza lenzuola, ma gli confischerò anche i giocattoli e i vestiti che gli ho comprato". La mamma esordisce così:
Poiché sembra che hai dimenticato che hai solo 13 anni e che il genitore sono io e che ritieni di non dover essere controllato, penso che debba imparare una lezione sull'indipendenza. Inoltre, dal momento che mi hai rinfacciato che ora stai facendo soldi, ti sarà più facile ricomprarti tutti gli oggetti che ho acquistato per te in passato.
letter
La lettera include anche una sorta di contratto, con una lista dettagliata di tutto ciò che Aaron avrebbe dovuto pagare da quel momento in avanti. Tra cui: 430 dollari (380 euro) per l'affitto, 116 dollari (103 euro) per l'elettricità, 21 dollari (18 euro) per Internet e 150 dollari (133 euro) per il cibo.
Dovrai anche svuotare l'immondizia lunedì, mercoledì e venerdì così come spazzare per terra e passare l'aspirapolvere durante questi giorni. Dovrai pulire il bagno ogni settimana, prepararti i pasti e tenere pulita la tua roba. Se non fai quanto ti ho chiesto dovrai pagarmi 30 dollari (26 euro) ogni giorno in cui dovrò fare queste cose al posto tuo. Se invece deciderai di tornare a essere il mio bambino invece del mio coinquilino, allora possiamo rinegoziare i termini.
La donna ha poi raccontato che nei giorni successivi Aaron è diventato più rispettoso e ha iniziato a darsi da fare in casa. "Ho notato che sta provando a essere più coscienzioso... Tutto inizia con una luna di miele; quindi solo il tempo dirà se funziona davvero - Ma almeno per quanto riguarda questa settimana, le cose sono migliorate molto e ho alte aspettative".

Dormire a sufficienza per andare bene a scuola.

Dormire fa bene. Il nostro cervello ha bisogno di un certo numero di ore di sonno per essere pronto ad affrontare ogni nuova giornata. E se i ritmi della quotidianità civilizzata ci hanno portano a svegliarci presto, la scienza ha rivelato che se la scuola iniziasse dopo le 10 di mattina, gli studenti andrebbero meglio a scuola. E non è un fattore di pigrizia, semplicemente questione di chimica.

Paul Kelley è un esperto del sonno, lavora infatti allo Sleep and Circadian Neuroscience Institute at the University of Oxford ed è stato proprio lui a dichiarare che si perdono in media 10 ore di sonno a settimana. Per i ritmi a cui siamo abituati dormiamo poco o comunque non abbastanza, e nell'arco delle settimane si accumulano debiti di sonno che potrebbero essere benefici per la nostra salute mentale. Kelley, almeno per gli studenti, propone fasce d'orario differente per fare iniziare le lezioni. Se per i bambini tra gli 8 e i 10 anni l'inizio delle lezioni alle 8:30 va bene, per i ragazzi di 16 anni invece sarebbe meglio iniziare alle alle 10. L'esperto è sostenuto dalla scienza infatti, in base all'età il nostro corpo rilascia la melatonina, un ormone che stimola il sonno. Nei ragazzi di 16 anni questa continua ad essere prodotto anche nelle prime ore della mattina, quindi la stanchezza non è pigrizia ma un fattore chimico.

L'inizio delle lezioni è fissato in media alle 8 di mattina, insomma nulla di strano, bisogna solo adattarsi. Certo, alla fin fine la campanella suona presto per tutti, ma se non fosse così ci sarebbero dei vantaggi? Secondo Kelley, si. L'esperto del sonno è stato un dirigente scolastico, ha condotto uno studio pilota in cui ha dimostrato quanto sonno e rendimento scolastico siano direttamente proporzionali. L'ex dirigente per un certo periodo ha applicato nella sua scuola un orario di lezione diverso: campanella alle 10. Dopo diverso tempo con l'orario tra i banchi posticipato di un paio di ore ha registrato un rendimento migliore degli studenti coinvolti nella ricerca. Insomma, più sonno uguale voti migliori. Ma questo è stato solo un esperimento isolato.

Quindi se proprio non c'è un rimedio alla sveglia presto che probabilmente continuerà a suonare prima delle 10, almeno questa volta sapete con chi prendervela: la melatonina !

Carmine Zaccaro, Se gli studenti vanno male a scuola è tutta colpa della melatonina, "Huffington post", 15-09-15.

lunedì 8 giugno 2015

Sei cristiano ? Non puoi andare all'estero.

Basta essere cristiani in Pakistan per vedersi negato il diritto di recarsi all’estero. Anche se si è dotati di tutti i documenti e le carte necessarie per farlo. È quello che testimonia la storia di Irfan Masih e sua sorella Maria Batool, cristiani di Kasur, vicino a Lahore, che sono stati bloccati all’aeroporto per due volte e per due volte si sono visti negare il diritto a viaggiare in Sri Lanka.

IL VIAGGIO. I due cristiani, assistiti dall’avvocato Mushtaq Gill, hanno fatto causa alla Federal Investigation Agency (Fia). Dopo aver ricevuto, come previsto dalla legge, una lettera di invito da un amico di famiglia, Nalika Damayanthi, residente in Sri Lanka, e aver ottenuto regolarmente il visto, hanno comprato un biglietto aereo per la tratta Lahore-Colombo. Il 12 maggio, però, una volta arrivati all’aeroporto internazionale Allama Iqbal per imbarcarsi, sono stati bloccati da alcuni ufficiali della Fia.

«VOLETE CHIEDERE ASILO». Dopo aver controllato i loro documenti, che erano in regola, non gli hanno permesso di salire sull’aereo e li hanno rispediti indietro dopo aver visto sui documenti la dicitura “cristiano” alla voce “religione”. I fratelli hanno comprato nuovi biglietti per partire l’1 giugno ma ancora una volta sono stati bloccati all’imbarco. Gli ufficiali della Fia li hanno accusati di volersi recare in Sri Lanka per chiedere asilo, «come fanno molti cristiani viaggiando in paesi come anche Malaysia e Thailandia».

«DIRITTI VIOLATI PERCHÉ CRISTIANI». Lo stesso Gill ha dichiarato all’Express Tribune di essere stato bloccato in modo simile nel dicembre del 2014, quando è stato invitato a tenere una conferenza in Italia in difesa di Asia Bibi. «Continuavano a dire che volevo recarmi in Italia per chiedere asilo. Sono potuto salire sull’aereo solo dopo aver chiesto a dei poliziotti di intervenire». Il diritto dei miei clienti, continua Gill, «alla libertà di movimento è stato violato a causa della loro fede. Loro non hanno nessuna intenzione di chiedere asilo».

«TROPPA DISCRIMINAZIONE». La discriminazione messa in atto dalla Fia rivela un altro grave problema, oltre alla violazione della libertà di movimento. La discriminazione e persecuzione dei cristiani è così diffusa e nota a tutti, che è sufficiente un biglietto d’aereo verso l’estero a far sorgere il sospetto che i proprietari vogliano chiedere asilo. Come se fosse scontato. «Il fatto che così tanti cristiani cerchino di chiedere asilo all’estero», ha aggiunto l’avvocato, «fa capire il livello di persecuzione in questo paese. I cristiani in Pakistan subiscono discriminazioni, violenza da parte di gruppi di estremisti, abuso della legge sulla blasfemia, disuguaglianza davanti alla legge, minacce, molestie e discriminazione sul posto di lavoro». Se fossero stati musulmani, i due fratelli «sarebbero potuti salire su quell’aereo».


domenica 31 maggio 2015

La 'colpa' di essere cristiani.

«Quando un cristiano in Pakistan viene accusato di blasfemia, i musulmani attaccano tutta la comunità cristiana, bruciando interi quartieri. Quando invece è un musulmano ad essere accusato, solo lui ne subisce le conseguenze». Perché? Per spiegare questo dato di fatto, che riflette la realtà di ogni giorno del Pakistan, dove la legge sulla blasfemia viene usata per discriminare i cristiani, Shahid Mobeen ha appena pubblicato un libro, Legge della blasfemia e libertà religiosa. Mobeen, pakistano, è docente incaricato presso la facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense del corso Islam e Neoplatonismo. «La legge sulla blasfemia, per come è scritta, è in sé discriminatoria, come molti altri aspetti dell’ordinamento e della società pakistani», dichiara a tempi.it.

Professore, quante persone vengono accusate di blasfemia in Pakistan?


Il Pakistan ha ereditato la legge sulla blasfemia dall’ordinamento dell’Impero britannico nel 1947, anno in cui lo Stato pakistano è nato, staccandosi dall’India. Fino al 1986, solo due persone sono state incriminate. Dal 1986 al 2010, invece, almeno 993 persone sono state colpite con l’accusa di aver profanato il Corano o diffamato Maometto in Pakistan.


Che cosa è successo nel 1986?


Il Pakistan è nato come Stato laico, ma nel tempo è stato invaso da una ideologia islamica. All’inizio la legge (art. 295 del Codice penale) prevedeva il carcere o una multa per chi “dolosamente e deliberatamente oltraggi, con parole, scritti o altre rappresentazioni, qualsiasi religione”. Poi, nel 1986, sono stati aggiunti due commi, che prevedono “(295 B) carcere a vita per chi offende il Corano o ne danneggi una copia in tutto o in parte o lo utilizzi per scopi illeciti” e “(295 C) pena capitale o carcere a vita e/o multa per chiunque offenda il nome o la persona del Profeta Muhammad con parole, scritti o altre rappresentazioni”. Nel 1990, poi, per il 295 C è rimasta solo la pena di morte.

Solo i cristiani vengono colpiti da questa legge?

Delle 993 persone incriminate, 479 sono musulmani, 120 cristiani, 340 ahmadi, 14 indù e 10 di altre confessioni.


Quindi colpisce di più i musulmani?


Sì, il 51 per cento delle vittime della legge sono musulmani ma se si considera che in questa nazione di 180 milioni di abitanti i musulmani sono il 95 per cento della popolazione contro il 2 per cento della minoranza cristiana, si capisce che i conti non tornano.


Qual è il problema della legge?


La legge è discriminatoria in sé, innanzitutto, perché si parla esplicitamente di “Corano” e “Maometto”, mentre dovrebbero essere considerate tutte le religioni. Bisogna poi dire che solo il 5 per cento della popolazione in Pakistan è in grado di leggere qualche parola in arabo, quindi la maggior parte della gente potrebbe commettere blasfemia, danneggiando un versetto sacro del Corano, senza essere consapevole di quello che sta facendo. E questo non è l’unico caso di discriminazione istituzionale in Pakistan.


Quali altri ci sono?


In base a una legge del 1991 (Sharia Act), tutte le leggi devono essere in linea con la legge islamica ma il Pakistan è nato grazie anche al contributo delle minoranze religiose. Le più alte cariche del paese, come presidente e primo ministro, non possono essere occupate da cristiani. Nei processi, la testimonianza di un uomo musulmano vale come quella di due uomini cristiani e di quattro donne cristiane. Ma non sono solo i cristiani a non essere valorizzati.


Cioè?


Il padre della patria pakistana, Muhammad Ali Jinnah, era uno sciita ismaelita. Proprio nelle ultime settimane un gruppo estremista simpatizzante dell’Isis ha massacrato tutti i 45 passeggeri ismaeliti di un autobus a Karachi. Queste discriminazioni vanno contro lo spirito con cui lui ha fondato il Pakistan, cercando di portare un’identità nazionale al di là delle religioni e piena libertà religiosa per tutti.


Perché così tanti cristiani vengono presi di mira?


Nella mentalità generale musulmana del Pakistan i cristiani sono un fastidio. I cristiani pakistani infatti sono quasi tutti ex Intoccabili dell’India convertiti che, grazie al lavoro della Chiesa su sanità, lavoro ed educazione, hanno fatto o cercano di fare un salto sociale. C’è chi vuole che il proprio figlio diventi medico, ingegnere, avvocato. Per gli intoccabili musulmani questo è inaccettabile sia perché si sentono superiori in quanto musulmani sia perché li vogliono mantenere sotto di sé. Ecco perché, dopo un’accusa di blasfemia a un cristiano, viene attaccata tutta la comunità.


Negli ultimi giorni sono circolate voci su una possibile modifica della legge. Che cosa ne pensa?


Quando sono stati fatti dei veri passi in questo senso, in passato, Shahbaz Bhatti è stato ucciso e una parlamentare, minacciata di morte, ha dovuto ritirare la sua proposta di modifica. Questi lanci mediatici, diffusi senza fonti, non rappresentano nessun passo concreto e ufficiale. È solo qualcuno che si fa pubblicità. Per cambiare l’applicazione della legge bisogna essere certi di ottenere un buon risultato e guardare i dettagli: che cosa si vuole cambiare? In quale maniera? Prima dovrebbe cambiare l’opinione pubblica.



mercoledì 29 aprile 2015

Una pagina dimenticata della Resistenza.

 Il partigiano Neri.
Nel primo pomeriggio di domenica 29 aprile 1945, il musone di una Fiat 1500 sgommava per i tornanti intorno al lago di Como. Era partita dalla zona nord del lago, da un piccolo centro che in quei giorni di fine aprile era diventato stranamente nevralgico, Dongo. Dentro la 1500 c’erano 6 valigie di cuoio giallo e al volante Carletto Maderna, l’“autista” dei partigiani nell’alto comasco detto Carletto “Scassamacchine”. È suo un memoriale vergato esattamente un anno dopo quella domenica mattina: «Mi hanno caricato sulla Fiat 1500 cinque o sei valigie in cuoio giallo. Nei locali del palazzo del comune di Dongo “Gianna” mi aveva detto che tre contenevano parecchi soldi italiani ed esteri. Seppi dopo che erano circa 400 milioni. Sono partito alle 13 circa insieme a “Gianna” e a “Francesco” e arrivammo a Como davanti alla Casa del popolo alle 14.30 circa. Salita la “Gianna” alla sede del partito comunista, scesero delle persone e assieme a me e a Francesco portammo (sic) le valigie alla sede stessa e, come ho visto io, sono state chiuse in una cassaforte sempre nella sede del Pci di Como».

L’ORO DI DONGO. La “Gianna” protagonista di questo episodio era una staffetta partigiana, la milanese Giuseppina Tuissi, che venne uccisa da un sicario prezzolato, probabilmente del Pci, la sera del 23 giugno 1945 e poi scaraventata da una scogliera, il Pizzo di Cernobbio, dentro il lago. I 400 milioni di lire dell’epoca nelle valigie sarebbero una piccola parte dell’oro di Dongo: 70 anni dopo quei fatti, lo storico Roberto Festorazzi, con materiali inediti, tra cui testimonianze dirette o memoriali recuperati dopo più di mezzo secolo, ricostruisce una pagina oscura dei giorni della Liberazione, nel libro da poco uscito Mussolini 1945: l’epilogo (ed. in edibus).


LE LETTERE DI CHURCHILL. Accompagnate da una documentata ricostruzione, sono molte le vicende di quei giorni ricostruite da Festorazzi per la prima volta. Al centro del libro resta ovviamente la fine di Benito Mussolini, e viene esplorata anche una pista inedita che contestualizzerebbe il motivo della rapida esecuzione del duce, collegata ad un carteggio segreto tra Mussolini e Winston Churchill che in quei primi frenetici giorni del dopoguerra per gli Alleati andava fatto sparire.
In questa indagine storica, Festorazzi propone per la prima volta alcune testimonianze dirette dei protagonisti dell’esecuzione, anche di coloro che all’epoca lavoravano in seno o vicini al Cvl, il Comitato volontari della libertà che fu il braccio armato della resistenza. Attraverso queste voci viene illustrata la tesi che l’allora comandante del Cvl, Raffaele Cadorna (figlio del generale Luigi, capo delle forze armate nella Grande guerra) abbia avuto un ruolo di primo piano nella decisione di uccidere Mussolini, malgrado negli anni successivi abbia poi cercato di sminuire le sue responsabilità.

IL PARTIGIANO NERI. Festorazzi racconta anche il tragico clima da aprile a giugno 1945, quando si consumarono molte esecuzioni di civili qualsiasi o all’interno delle stesse brigate partigiane. “Gianna” è una delle vittime di questo clima insieme al suo amante, nonché comandante partigiano di cui era stata la “staffetta”, “Neri”. Una vicenda strettamente collegata all’oro di Dongo, il misterioso tesoro della Repubblica sociale italiana, che secondo Festorazzi ammontava a circa 1 miliardo di lire dell’epoca e venne in parte depredato dalla popolazione dei paesi del lago di Como, perché «i gerarchi stessi affidarono borse e valigie colme di valori ai partigiani e ai loro simpatizzanti, nella speranza di poterseli in qualche modo ingraziare». Inoltre «parte considerevole del tesoro, almeno la metà della sua entità complessiva, venne incamerata dal Partito comunista».

L’autore ipotizza che sarebbe stato proprio per il loro tentativo di impedire che i compagni di partito si macchiassero di questo furto silenzioso che Gianna e Neri forse sarebbero stati fatti fuori dai loro stessi compagni. Neri, al secolo Luigi Canali, era l’affascinante e carismatico capo partigiano del reparto comasco delle Brigate Garibaldi: cresciuto in una famiglia marxista e cattolica, dopo aver preso parte alla campagna di Russia, Canali maturò la scelta di impegnarsi attivamente nella resistenza per contrastare il fascismo.
Dai documenti raccolti, Festorazzi ricostruisce come Neri avesse in quell’aprile 1945 il sostegno e l’apprezzamento incondizionato della popolazione comasca, che riconosceva in lui il leade dell’antifascimo, al punto che quasi certamente fece parte del commando che uccise Mussolini e la Petacci. Tuttavia Canali forse sapeva qualcosa sulla fine del dittatore, che non aveva avallato. Neri sparì misteriosamente la notte del 7 maggio ’45: secondo l’autore fu fatto uccidere dai compagni partigiani, che volevano impedirgli di rivelare qualcosa sulla fine di Mussolini. La sua compagna e staffetta Gianna, all’epoca nemmeno 22enne, trascorse il mese di maggio e di giugno cercando di indagare insieme alla madre di Neri e ad un giornalista del Corriere sulla fine di Canali: ma anche lei, testimone scomoda, sarebbe stata eliminata.


Chiara Rizzo, La resistenza, l’oro di Dongo e una pagina di storia dimenticata, "Tempi", 24-04-15. 

  

lunedì 27 aprile 2015

Vuoi essere assunto ? Occhio a queste virtù.

Secondo una ricerca effettuata dalla Business School ESCP Europe che ha coinvolto 100 manager di azienda, le caratteristiche richieste dai datori di lavoro al momento di assumere un nuovo lavoratore stanno cambiando: le aziende chiedono un approccio più pratico al lavoro. Per questo per essere assunti sono necessarie 3 particolari qualità. Ecco quali sono secondo quanto riportato da Skuola.net.  

#3 CAMBIARE? NON E' UN PROBLEMA
La capacità di adattarsi ai cambiamenti è una qualità che fa riferimento alla metodologia di lavoro: ben 1 su 4 dei manager d'azienda intervistati considerano questa la più importante per il settore. E' addirittura più importante dell'orientamento ai risultati, cioè la capacità di centrare gli obiettivi lavorativi, e della capacità di avere a che fare con i clienti. Anche la ricerca e la gestione delle informazioni non è ritenuta di pari rilevanza.

#2 L'UNIONE FA LA FORZA
Il candidato ideale deve avere qualità di leadership? Ma quando mai! Ormai non si lavora più da soli e saper comunicare e lavorare tra più persone è considerato un punto di forza per chi deve essere assunto. Per questo il teamworking (39%) e la comunicazione (36%) sono considerate le qualità più importanti per quanto riguarda le soft skills sociali. Leadership, networking ed adattabilità culturale chiudono la classifica rispettivamente al 4%, 4% e 0%.

#1 IMPARO TUTTO
La capacità di apprendimento (31%) e la creatività (22%) sono le qualità personali più richieste ai giovani laureati che cercano un posto di lavoro. Se il mondo è in continuo cambiamento, è indispensabile per un azienda assumere persone che non smettono mai di imparare, e riescono a cogliere sempre nuove opportunità e intuire innovazioni. A sorpresa, l'etica professionale (4%) e la tolleranza allo stress (4%) non compaiono tra le caratteristiche personali più richieste. 

domenica 12 aprile 2015

Previsioni sul clima ? Per Scott Armstrong non sono attendibili.


Professor J. Scott Armstrong, lei insegna all’università della Pennsylvania: mi può dire cos’è un «previsore»?  
«È una persona che stabilisce cosa è probabile che accada in una determinata situazione, e come sarà. Per fornire previsioni utili i “previsori” devono usare procedure basate su prove di efficacia. Questo processo è riassunto nei 139 principi del mio libro, “Principles of Forecasting”. La conoscenza nasce dalle recensioni di 40 esperti di previsioni in vari campi in decenni di ricerca. Dal 2000 i principi sono disponibili su forprin.com”». 

Il meccanismo della previsione funziona indipendentemente dal problema a cui viene applicato?  
«Sì, in ogni situazione. Tuttavia molti sostengono che non vale per il loro caso». 

Le previsioni funzionano meglio in alcuni settori piuttosto che in altri?  
«Quelle del tempo sono un settore in cui se ne può fare un buon uso. Ad esempio, quando le previsioni del tempo danno per domani il 60% di possibilità di pioggia, 60 volte su 100 piove. Per contro i manager spesso usano le previsioni come strumenti motivazionali e tuttavia non seguono principi scientifici». 

Il riscaldamento globale è anche un problema di previsioni?  
«Il problema non è cos’è accaduto nel passato. Il punto è cosa accadrà al clima nel futuro. I governi e le maggiori industrie discutono di politiche costose per fermare gli effetti del riscaldamento globale causato dall’uomo. E quindi sì: questo è innanzitutto, e soprattutto, un problema di previsioni». 

Quanto sono affidabili le previsioni sul riscaldamento?  
«Dal punto di vista scientifico non hanno nulla di valido. L’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (il gruppo di esperti dell’Onu), ha concluso che i mutamenti della temperatura media annuale del Pianeta non possono essere previsti, perché il clima è troppo complesso. Nondimeno si affidano a modelli elaborati al computer per esemplificare le loro supposizioni sui meccanismi climatici. Definiscono “scenari” il risultato di questi modelli e in effetti quelle dell’Ipcc sono narrazioni illustrate con l’infografica di ciò che avverrebbe, se le loro supposizioni si rivelassero corrette. Sfortunatamente, i governi trattano questi scenari come previsioni e gli scenari portano a previsioni fuorvianti. In aggiunta, le supposizioni dell’Ipcc mancano di supporto scientifico, come è stato illustrato nei tre volumi del “Climate Change Reconsidered”. Gli allarmisti del riscaldamento globale affermano che quasi tutti gli scienziati concordano sui rischi di un innalzamento delle temperature. Tuttavia citare l’opinione degli scienziati non è un sistema scientifico per fare previsioni. E l’affermazione, peraltro, non risponde al vero». 

Allora qual è la verità sull’innalzamento delle temperature?  
«Kesten Green, Willie Soon e io siamo isolati nelle nostre posizioni. Premesso l’alto livello di incertezza sull’effetto delle emissioni di ossido di carbonio a causa dell’attività umana, nel clima vediamo solo cambiamenti naturali. Inoltre, non abbiamo previsioni a lunga scadenza, né di raffreddamento né di riscaldamento. I nostri test sull’accuratezza delle previsioni nel periodo dal 1851 al 1975 hanno accertato che, per 91 anni su 100, gli errori nelle temperature rilevate dagli scenari dell’Ipcc come “conformi” erano 12 volte maggiori di quelli del nostro modello. Nel 2007, nel tentativo di incoraggiare i meteorologi a provare l’accuratezza dei loro pronostici, avevo proposto una scommessa all’ex vice presidente degli Usa Al Gore: avevo suggerito che entrambi puntassimo 10 mila dollari da destinare in beneficenza. La sfida consisteva nel prevedere la temperatura media annua globale per i prossimi 10 anni e io scommettevo che non ci sarebbero state variazioni. Ma Gore rifiutò la scommessa. Il sito Theclimatebet.com traccia i dati sulle temperature per mostrare come sarebbe andata se Gore avesse voluto mettere in gioco il modello dell’Ipcc contro il mio». 

Perché il dibattito sul cambiamento climatico é così aspro?  
«Gli avvocati dell’ipotesi del riscaldamento globale non vogliono affrontarla come soggetto scientifico. Rifiutano di confrontarsi con ipotesi alternative o di citare la letteratura che non concorda con la loro tesi e ribattono che gli “scettici” non sono veri scienziati, tentando di impedire che presentino le loro idee ai media».