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giovedì 30 ottobre 2014

Ungheria. Prove tecniche di dittatura ?

Il governo di Viktor Orban, dopo le banche e il comparto energetico, prosegue nella sua marcia di smantellamento dello stato di diritto, cercando di introdurre una tassa che di fatto impedisce il libero accesso alla rete di gran parte della popolazione ungherese. 
Una conferma  (se ancora ce ne fosse bisogno)  di quanto sia temuta la libera circolazione delle notizie e delle idee sulla rete, che rappresenta il più formidabile baluardo contro ogni tipo di dittatura.
La decisione di Orban è stata criticata anche dall'Unione europea che l'ha definita "un'idea molto cattiva" e soprattutto "l'ultima misura di una serie prese a livello nazionale che limitano la libertà".













martedì 28 ottobre 2014

Carlo Levi: reportage dall'India e dalla Cina.

«Carlo Levi, per incarico de La Stampa, ha compiuto un viaggio in India. È ritornato pochi giorni fa, ed ora, in una serie di articoli, narrerà le varie tappe del suo itinerario, e dirà le sue impressioni e osservazioni sul grande Paese che, proprio in questi giorni, appare uno dei più importanti protagonisti della politica internazionale». Questo distico apparve in apertura della famosa terza pagina della Stampa, accanto a una foto del maresciallo Zukov, in precario equilibrio su un’elefantessa, durante una visita di delegati sovietici in India. Bastano queste poche parole introduttive a farci capire com’era diverso il giornalismo in un mondo in cui l’informazione viaggiava ancora lenta, in cui ci si poteva permettere di scrivere al ritorno e di pubblicare su un quotidiano un grande reportage in quattordici puntate, frutto di un mese di viaggio nella nazione che da appena dieci anni aveva conquistato l’indipendenza dagli inglesi. Il valore stava nell’approfondimento, nella capacità descrittiva e non nell’immediatezza; nessuno pretendeva di vivere in una continua diretta, in quell’infinito presente dove la notizia vale solo se è accaduta adesso e tutto viene considerato superato dopo meno di ventiquattro ore.  

Il giornalismo è cambiato insieme alle abitudini di lettura, alla nostra gestione del tempo: negli anni Cinquanta la terza pagina, la cultura di un giornale, aveva un unico concorrente, il libro. Quando Levi scrive, la Rai ha un solo canale e il segnale della televisione da appena pochi mesi copre tutta l’Italia, le serate non sono saturate da centinaia di canali tv, da dvd, tablet, smartphone, corsi di cucina, di yoga e attività sportive. La terza pagina gode di una centralità assoluta nell’alfabetizzazione del lettori, nell’educazione al mondo, nella costruzione di dibattiti e nella formazione dell’opinione pubblica.  

Così, quel 29 gennaio del 1957, quando Levi cominciò a raccontare la sua India, i lettori partirono con lui. La prima cosa che emerge, in una stagione in cui non venivamo ancora bombardati dalle immagini, è l’insistenza delle descrizioni minute, l’osservazione dei luoghi, delle persone, dei paesaggi, che catturano un lettore che non ha molte altre occasioni di confronto con luoghi così distanti e che viene affascinato dall’esotico. Basti la descrizione dell’ingresso nella città vecchia di Delhi come esempio: «In mezzo al crocicchio sta, come uno di quegli antichi monumenti indiani pullulanti di figure scavate nella roccia, un gregge, o meglio un groviglio di vacche disparate: grandi, piccole, bianche, grigie, pezzate, punteggiate, tigrate, macchiettate come leopardi per chissà quali infiniti selvatici incroci, gibbute, ossute, con le corna dipinte di rosa e lo sguardo, insieme mite e feroce, pieno di sacra impenetrabilità. Entriamo nel primo vicolo passando tra altre vacche sdraiate, come sacri macigni, e capre e cani, e galline, corvi, topi e scoiattoli, e siamo subito avvolti, come in un’acqua mossa e caotica, nella infinita molteplicità colorata». Una narrazione in cui emergono tutte le capacità di analisi e di disegno di uno scrittore che era anche pittore, e che aveva un religioso rispetto del dettaglio e delle sfumature. I suoi reportage sono una serie di fotografie, di affreschi sulla società indiana. [...]  

Il viaggio è un successo di pubblico, tanto che la direzione del giornale – allora nelle mani di Giulio De Benedetti – due anni dopo, tra il novembre del 1959 e il gennaio del 1960, pubblica un nuovo viaggio di Carlo Levi, questa volta in Cina. Ancora una volta abbondano le descrizioni, come quella della piazza Tienanmen e della Città proibita, che riescono a stupire perché non erano negli occhi dei lettori, che non avevano visto le diapositive degli amici di ritorno dalle vacanze, le foto su Instagram o L’ultimo imperatore di Bertolucci.  
Eppure il senso del cambiamento, delle distanze che si accorciano, è già presente in Levi che all’arrivo a Pechino direttamente da Mosca si interroga: «Sono dunque finite le distanze? Un viaggio a Pechino è diventato il volo di un giorno. Non per questo il vedere e il comprendere diventano più facili: il lento passaggio di una volta attraverso terre e paesi preparava al nuovo diverso, e permetteva di lasciare dietro di sé i pensieri di prima, di essere aperti e disponibili a una realtà faticosamente e lentamente raggiunta: di diventare, come dovrebbe essere il viaggiatore e il poeta, come una spugna asciutta e vuota che può tutta riempirsi delle acque dove è immersa, per riversarle poi agli altri che sono rimasti ad aspettare. Il volo troppo veloce non permette questa liberazione dal passato».  

Il viaggio in Cina è però reso più difficile dalla realtà di un paese con un regime comunista che non ha certo la tradizione giornalistica britannica e la libertà di movimento trovata in India, tanto che il peso della propaganda affiora spesso nel racconto e la descrizione del mondo dei contadini, centrale in tutto il lungo reportage, non regge all’esame della storia. Levi visita le campagne cinesi nei mesi centrali del «Grande balzo in avanti», il piano economico voluto da Mao per industrializzare e modernizzare il paese attraverso le Comuni del popolo, e ne resta poeticamente affascinato. È colpito dallo sforzo – che ritiene spontaneo e convinto – di riorganizzazione delle campagne, di far marciare accanto agricoltura e industria, di far funzionare piccole fornaci per il metallo in ogni piccola comune, e registra soddisfatto le assicurazioni sulla fine della fame e della carestia. Ma siamo alla vigilia della Grande Carestia del 1960, che farà decine di milioni di morti in Cina, mostrando al mondo e consegnando alla Storia i limiti drammatici di una pianificazione insensata e folle. 

Resta in queste pagine di Levi la testimonianza di un mondo, del suo percorso storico e culturale, un documento con cui confrontarsi. In un tempo che sembra dimenticare il valore della lentezza e della profondità è questo, certo, un esempio da recuperare. 

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“Buongiorno, Oriente”  
Esce domani per Donzelli Buongiorno, Oriente (pp. 256,  24), un volume che raccoglie i reportage dall’India e dalla Cina realizzati da Carlo Levi tra il 1957 e il 1959 per la terza pagina della Stampa. Scrittore e pittore (accanto al titolo un autoritratto del 1945), intellettuale di spicco dell’antifascismo, Carlo Levi (nato a Torino nel 1902 e morto a Roma nel 1975) tra il 1935 e il 1936 fu condannato dal regime al confino in Lucania: da quell’esperienza nacque il celeberrimo Cristo si è fermato a Eboli. In questa pagina anticipiamo la prefazione al volume Donzelli scritta da Mario Calabresi e un brano di un reportage pubblicato sulla Stampa del 1° marzo 1957  
Mario Calabresi, Dal nostro inviato Carlo Levi, "La Stampa", 28-10-14.

Ancora violenze contro i docenti.

Uno studente quindicenne ha sparato ed ucciso un' insegnante in una scuola in Estonia a Viljandi, una cittadina di circa ventimila abitanti nel sud del paese baltico, non molto distante dal confine con la Lettonia.
Il tragico evento è avvenuto ieri. Lo studente, di quindici anni, frequentava la nona classe della scuola di Viljandi, e non si erano avuti prima segnali di violenza da parte del ragazzo, anche se alcuni mesi fa durante un controllo anti droga nella scuola la polizia estone aveva trovato nello zaino del ragazzo un coltello.
La vittima è l’insegnante di tedesco della scuola, la cinquantaseienne Ene Sarapa. La polizia ha dichiarato he il ragazzo ha sparato con una pistola, di cui non è stata ancora chiarita la provenienza. Sconosciute al momento anche le cause del gesto.
Lo studente ha sparato all’insegnante di tedeesco durante la lezione. All’interno della classe sembra si trovassero altri cinque studenti.
Il presidente estone Toomas Ilves ha espresso le sue condoglianze alla famiglia della vittima. Lo stesso ha fatto il primo ministro estone Taavi Rõivas. “Dobbiamo chiarire i motivi dell’incidente, ma questa violenza è intollerabile. Queste cose non possono accadere. Tutti noi abbiamo il dovere di avere attenzioni nei confronti delle persone che ci stanno vicino, e cercare di aiutarle. Quello che è avvenuto oggi è molto doloroso. Esprimo la mia più profonda vicinanza alla famiglia della vittima e agli operatori scolastici”.
Anche l’ambasciata americana a Tallin ha espresso le sue condoglianze all’Estonia.

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Sotto, video sull'episodio : 


lunedì 27 ottobre 2014

Le parole dell'Islam: jihadismo.


Con il termine jihadismo si fa tradizionalmente riferimento al macrofenomeno del fondamentalismo islamico che, attraverso una multiforme costellazione di soggetti e raggruppamenti, promuove il ‘jihad’ contro coloro che a vario titolo sono considerati infedeli. Tale prospettiva – che ha avuto modo di consolidarsi con particolare forza dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 – riconduce pertanto il jihad ad una dimensione conflittuale spesso marcatamente brutale e violenta, che funge da base ideologica per il terrorismo di matrice islamica e che, grazie anche ad una propaganda particolarmente efficace, ha attratto nell’ultimo decennio migliaia di nuovi adepti.
Pur non rientrando tra i cinque precetti fondamentali, il concetto di jihad rappresenta un elemento centrale dell’Islam, attorno al quale sono fioriti importanti studi ed è stata sviluppata una teoria giuridica e politica. Dal punto di vista letterale, jihad può essere tradotto come ‘sforzo’, da intendersi ‘sulla via di Dio’, e chi vi è impegnato è identificato come ‘mujahid’: in tale accezione, il concetto appare semanticamente diverso dalla traduzione di ‘guerra santa’ frequentemente proposta. Secondo taluni studiosi inoltre, pur sostanziandosi nell’idea del combattimento, il jihad deve comunque intendersi in funzione difensiva, perché nel Corano è prescritto di combattere ‘coloro che vi combattono’ e di farlo ‘senza eccessi’. Tale percezione non risulta tuttavia unanimemente condivisa, e occorre precisare che alcune sure del Testo sacro oltre che diversi hadith – brevi narrazioni che riportano il pensiero e l’insegnamento del Profeta Maometto – aprono a letture più aggressive del jihad, inteso come vera e propria lotta fisica. I trattati di diritto musulmano contengono poi diverse indicazioni su come condurre la guerra, contro chi condurla e cosa fare una volta sconfitti i nemici; ed è nei testi giuridici che sono reperibili molteplici riferimenti al dar-al-Harb – la ‘casa della guerra’ dove portare avanti il jihad – contrapposta al dar-al-Islam, la ‘dimora dei credenti’.
Nonostante la sua rilevanza, al di fuori del mondo islamico il tema del jihad è rimasto a lungo appannaggio esclusivo degli studiosi. La familiarità dell’opinione pubblica occidentale – per lo meno sotto il profilo mediatico - con il jihad e con il fenomeno del jihadismo è infatti da considerarsi recente, e in gran parte riconducibile agli sviluppi storici e geopolitici successivi agli eventi dell’11 settembre 2001, quando l’Occidente colpito nei suoi massimi simboli economici (New York e le Torri Gemelle) e militari (il Pentagono a Washington) ha scoperto al suo interno una inattesa quanto preoccupante vulnerabilità. Dai richiami al jihad contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, gli Stati Uniti trassero indiscutibili vantaggi nell’ambito del conflitto bipolare; ma furono proprio quei proclami formulati da studiosi quali Abdullah Yusuf Azzam – lo stesso che nell’aprile del 1988 scrisse dello sviluppo di un’avanguardia come solida base (al-Qaida al-Subah) per costruire la società islamica anticipando la nascita di al-Qaida – a colpire gli USA nel 2001. Gli attentati al World Trade Center nel 1993, l’uccisione di decine di turisti occidentali a Luxor nel 1997 e gli attacchi alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998 avevano già messo in evidenza la sensibilità degli obiettivi riconducibili all’Occidente, e risale al 1998 la celebre fatwa in cui Osama bin Laden affermava che l’uccisione degli americani e dei loro alleati fosse un dovere per ogni musulmano. Furono tuttavia i fatti eclatanti dell’11 settembre a condurre alla percezione del terrorismo di matrice jihadista come fenomeno globale, e di rimando ad una pressoché immediata sovrapposizione concettuale di jihad e terrorismo nelle società occidentali. Similmente, la ‘guerra al terrore’ avviata dall’amministrazione di George W. Bush con l’offensiva contro il regime talebano afghano reo di proteggere Osama bin Laden, è stata accompagnata da una retorica polarizzante che, nella misura in cui tendeva a separare in modo netto il bene dal male, ha contribuito ad alimentare la percezione del conflitto come una dichiarazione di guerra contro i musulmani, percezione meno nitida nel caso afghano ma cresciuta esponenzialmente con la campagna irachena iniziata nel 2003. Sotto il profilo sociologico, una interessante tesi tende ad evidenziare come l’identificazione dell’Occidente quale nemico dell’Islam possa essere ricondotta ad un netto rifiuto della sua cultura e del ‘carico di modernità’ che la accompagna, portatore di una secolarizzazione incompatibile con le sacre verità della legge islamica; al tempo stesso, la globalizzazione è intesa come strumento di un nuovo imperialismo occidentale che mira ad esercitare il suo controllo sul dar-al-Islam.
È altresì evidente però che i precipitati della globalizzazione sono stati funzionali alla diffusione della propaganda jihadista: grazie ad un efficace uso delle nuove tecnologie e dei media, il messaggio è stato infatti trasmesso su scala globale favorendo la crescita del sostegno alla causa; inoltre, la divulgazione delle immagini delle torture commesse dagli uomini della coalizione USA ad Abu Ghraib nel corso della guerra in Iraq, ha alimentato in alcuni ambienti l’idea dell’Occidente oppressore e rafforzato l’ostilità nei suoi confronti.
Inquadrare la galassia delle forze di ispirazione jihadista esclusivamente nella prospettiva di una lotta globale contro l’Occidente sotto una struttura di comando centralizzata indicata come al-Qaida, non renderebbe tuttavia conto della complessità del fenomeno, ulteriormente accentuatasi negli ultimi anni. Proprio in riferimento ad al-Qaida, si è tradizionalmente utilizzato il concetto di network, ad indicare una struttura ramificata che non si esauriva esclusivamente nelle aree dell’Afghanistan e del Pakistan. Sui collegamenti tra ‘centro’ e ‘periferia’, sulla forza dei vincoli di affiliazione delle diverse cellule e sull’eventuale autonomia di azione di tali unità rispetto al ‘centro’ si è spesso discusso, senza peraltro giungere a risposte univoche. Il nucleo originario di al-Qaida ha subito nel corso della guerra al terrore perdite di una certa rilevanza, su tutte quella di Osama bin Laden ucciso nel corso del blitz di Abbottabad (Pakistan) nel maggio del 2011; cionondimeno le diverse ramificazioni di quello che viene identificato come il network qaidista hanno comunque dimostrato di essere operative. È il caso di al-Qaida nella Penisola Araba (AQAP), gruppo costituitosi ufficialmente nel gennaio del 2009 e responsabile di numerosi attacchi nello Yemen senza dimenticare il grande nemico americano, come dimostra il fallito attentato del 25 dicembre 2009 sul volo 253 della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit; o ancora di al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM), le cui origini sarebbero rinvenibili nella guerra civile algerina degli anni ’90 e che nel 2007 assunse tale denominazione per sancire ufficialmente la sua affiliazione ad al-Qaida. Un’organizzazione prevalentemente attiva in Algeria, Mauritania, Niger e Mali, paese quest’ultimo nel quale è stata tra i protagonisti di un conflitto destabilizzante tra il 2012 e il 2013 che ha allarmato l’Europa e in particolare Parigi, timorose della nascita di un santuario jihadista con il mirino puntato verso il Vecchio Continente. In Mali opera anche il Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO), nato da una costola di AQIM e interessato ad espandere l’azione jihadista nell’Africa Occidentale. C’è poi il fronte del Corno d’Africa, dove operano i miliziani di al-Shabaab che terrorizzano la Somalia e hanno realizzato attentati anche in Uganda e in Kenya, tra cui quello al Westgate Mall di Nairobi nel settembre 2013.
AQIM, al-Shabaab, AQAP e la stessa al-Qaida avrebbero inoltre avuto contatti con Boko Haram – che in lingua hausa significa ‘l’educazione occidentale è peccaminosa’ - organizzazione terroristica nata nel 2002, attiva in Nigeria (ma ha anche sconfinato in Camerun) e il cui nome ufficiale è Jama'atu Ahlis Sunna Lidda'Awati Wal-Jihad, che vuol dire ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e del Jihad’.
La causa jihadista interessa anche la regione nord-caucasica controllata dalla Russia: l’Emirato del Caucaso è riconosciuto come organizzazione terroristica sia da Mosca che da Washington, ha cooperato con al-Qaida e segue con particolare interesse le evoluzioni del non lontano teatro di guerra siriano, in cui interessanti orizzonti si sono aperti per il jihad. Nei vuoti lasciati dalle primavere arabe, la lotta islamista è riuscita infatti ad infiltrarsi e ad espandersi, incrementando la già notevole instabilità del Grande Medio Oriente; e se nel caos della Libia del post-Gheddafi gli scenari appaiono di difficile interpretazione, il teatro siriano e quello del vicino Iraq hanno fatto registrare preoccupanti evoluzioni. In Siria, attratti dal messaggio diffuso dai predicatori, migliaia di volontari da ogni parte del mondo – tra cui moltissimi europei – combattono il jihad contro il regime del dittatore alawita Bashar al-Assad: non più dunque la guerra contro il ‘nemico lontano’ americano e occidentale, ma quella sunnita contro il ‘nemico vicino’. Nella complessa costellazione delle forze attive in Siria, si è distinta per l’efficacia delle sue azioni Jabhat al-Nusra, anch’essa affiliata ad al-Qaida ed inserita dagli USA – pure apertamente ostili al regime di Damasco – tra le organizzazioni terroristiche a fine 2012. Nell’aprile del 2013 giunse l’annuncio della sua fusione con il gruppo iracheno dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), stabilitosi nel 2006 come successore di al-Qaida in Iraq e poi allargatosi alla Siria con la guerra civile: a dare la notizia fu il leader dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, ma Jabhat al-Nusra, pur confermando l’esistenza di rapporti tra le due forze, ribadì la sua fedeltà ad al-Qaida e alla causa siriana. L’ISIS ha tuttavia proseguito con le sue iniziative, estendendo la sua influenza su territori sempre più vasti e sconfiggendo più volte il debole esercito di un Iraq profondamente diviso dalle politiche settarie del premier sciita Nuri al-Maliki, fino alla proclamazione del califfato islamico a cavallo tra lo Stato iracheno e la Siria. I nuovi scenari mettono in guardia l’Occidente e i vicini medio orientali, preoccupati dall’avanzata di un gruppo – che si è ribattezzato semplicemente Stato Islamico (IS) – che ai proclami del jihad accompagna un progetto politico ben più definito che in passato, mirante ad incidere nel tessuto dello status quo geopolitico della regione. Un’avanzata che ha costretto i cristiani alla fuga e in cui centinaia di yazidi considerati ‘adoratori di Satana’ sono stati massacrati. Ai raid degli USA cominciati nell’agosto del 2014, l’IS ha risposto con la decapitazione degli ostaggi statunitensi James Foley e Steven Sotloff, all’annuncio del sostegno britannico ai peshmerga curdi in funzione anti-Stato Islamico, l’organizzazione ha reagito con l’uccisione di David Cawthorne Haines; in Algeria la formazione Jund al-Khalifa ha rotto con al-Qaida giurando fedeltà al califfo al-Baghdadi e uccidendo il 24 settembre l’ostaggio francese Hérve Gourdel; nelle Filippine è stata Abu Sayyaf a minacciare l’uccisione di due tedeschi. E mentre al-Qaida appare più debole, sempre più formazioni uniscono la loro causa a quella del califfato, un polo di riferimento di giorno in giorno più importante per la galassia jihadista. A inizio settembre 2014, al-Zawahiri ha rilanciato con l’annuncio della nascita di un ramo di al-Qaida nel Subcontinente indiano, che dovrebbe agire dall’India fino al Myanmar: secondo gli esperti, anche un messaggio allo Stato Islamico rispetto a cui al-Qaida ha perso terreno.
La galassia jihadista e i paradigmi del jihadismo paiono dunque in via di rimodulazione e ridefinizione, adattandosi alle contingenze geopolitiche e modificandole allo stesso tempo.

Enciclopedia Treccani, Jihadismo .

Roma capitale. Di cosa ? 8.

Uno tsunami non avrebbe potuto fare di più. A un anno e mezzo dal trionfale "cappotto" contro Alemanno (finì 64 a 36 e 15 municipi a zero), il gradimento del sindaco Marino ha subìto un crollo verticale: solo il 20% dei romani si fida ancora di lui, l'80% poco o per nulla. Significa che quattro su cinque preferirebbero qualcun altro sulla tolda del Campidoglio. Tant'è che se oggi si tornasse alle urne, lo rivoterebbe solo il 23% degli elettori, il 75% scriverebbe un altro nome sulla scheda. Peggio fa la giunta, promossa solo dal 16% dei cittadini, mentre l'84 si dichiara insoddisfatto. È la foto di una débâcle. 

Scattata dalla Swg per conto del Pd romano. Il sondaggio choc, realizzato all’incirca un mese fa su un campione di duemila intervistati, è stato commissionato dal principale azionista della maggioranza capitolina, interessato a misurare — anche in termini di consenso — l’efficacia dell’azione amministrativa. Certo non aspettandosi un risultato tanto disastroso. Riassumibile in un dato: alla domanda su “che cosa funziona bene a Roma”, il 54% ha risposto: «Nulla».

Per la stragrande maggioranza, chiamata a descrivere la città con tre aggettivi (senza indicazioni prestabilite), Roma è sporca (62%), caotica (49), degradata (35): il termine «bella» — che dovrebbe essere il più usato — compare solo al quinto posto. Un giudizio che si riflette, subito dopo, sulla “Roma che vorrei”: «Pulita» auspica il 60% dei sondati, «vivibile, accogliente, curata» il 31%, «efficiente» il 29. Tant’è che quando si chiede di individuare, in ciascun municipio, le emergenze da risolvere, il 61% indica «il decoro urbano», il 59 «la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti», il 53 «i problemi legati al trasporto pubblico». Servizio, quest’ultimo, che per quattro romani su cinque è quello che funziona peggio (79%), seguito ex aequo dalla gestione del traffico (70) e dei rifiuti (69), più distanziate la sicurezza (52) e la polizia municipale (45), che registrano comunque un gradimento piuttosto basso. È tuttavia il confronto con il predecessore a far suonare il campanello d’allarme. Alla domanda: “Secondo lei come vanno le cose rispetto a quando c’era come sindaco Alemanno?”, solo il 23% risponde che è meglio con Marino («molto» per il 4%; «un po’» per il 19); il 35% risponde che non è cambiato nulla; per il 40% va addirittura peggio («un po’» per il 15%, «molto peggio» per il 25). 

A leccarsi i baffi è il M5Stelle che, oltre a guadagnare 13 punti rispetto alle comunali 2013, per i romani potrebbe «governare meglio» di Marino (23%), come farebbe pure «un’altra giunta di centrosinistra» (22%), mentre «un’altra giunta di centrodestra» e «l’attuale giunta di centrosinistra» registrano un credito più basso, il 14 e il 13%, rispetto alla capacità di amministrare la città. Un’insufficienza che però, a sorpresa, non si riflette sul consenso. Il centrosinistra, infatti, è ancora saldamente in testa: il Pd prende addirittura 9 punti in più rispetto alle elezioni di un anno e mezzo fa, a riprova del fatto che Marino è sempre stato vissuto come qualcosa d’altro e di diverso rispetto al “suo” partito. E così, se si rivotasse oggi, i dem sarebbero primi con il 35% (erano al 26,3), Sel al 6, Rifondazione all’1,5, Idv allo 0,5 (totale 43%, nel 2013 era il 43,6 anche grazie all’exploit della lista civica). Secondi arriverebbero i grillini con il 25% (era il 12,8 nel 2013). Il centrodestra, invece, non supererebbe il 27,5, con Fi al 12,5, FdI al 6,5, Ncd al 3,5, Destra e Lega entrambe al 2,5.
Giovanna Vitale, Marino, il crollo del consenso: bocciato da otto romani su dieci, "Repubblica", 24-10-14.

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Sotto, video sul degrado di Roma:














domenica 26 ottobre 2014

Un abbraccio che vale più di mille parole.

Tra i tanti meriti di Obama, quello di aver assunto la guida della lotta contro Ebola figura senz'altro ai primi posti.
Il Presidente degli Stati Uniti ha capito da mesi che Ebola minaccia di trasformarsi nel più micidiale flagello per l'umanità dopo l'influenza spagnola e sta riservando a questa emergenza gran parte della sua attività, assicurando le energie e le risorse che il suo Paese è in grado di fornire.
Se la terrificante pandemia  (che diversi esperti profetizzano)  non si verificherà, ciò sarà possibile soprattutto grazie all'impegno di Obama.  Anche per questo entrerà a pieno titolo nei libri di Storia, diversamente da quei politici, in particolare europei, che nessuno vorrà ricordare, viste l'ignoranza e la stupidità che stanno dimostrando nell'affrontare questa minaccia.
Qui e qui le aree del portale della Casa Bianca dedicate alle azioni intraprese contro il virus.
Sotto, video sull'incontro tra Nina Pham e Obama:







sabato 25 ottobre 2014

Roma Capitale. Di cosa ? 7.

Oggi, 24 ottobre 2014, l’ennesima grave brutta figura per il trasporto pubblico locale sulla ferrovia Roma-Civita Castellana-Viterbo ad opera del gestore ATAC SPA.  Nella giornata odierna è previsto lo sciopero dei mezzi pubblici (il tredicesimo dall’inizio dell’anno) e i treni sono garantiti nelle apposite fasce: prima delle ore 8.30 e tra le ore 17 e le ore 20.  Alle ore 17.30 circa, alcuni utenti scendono alla stazione di Labaro dai primi treni ripartiti in fascia di garanzia e trovano la bruttissima sorpresa della stazione chiusa.  Chiusa con un catenaccio e un lucchetto, da non crederci!

Lo stesso fatto era accaduto circa un anno fa, sempre durante uno sciopero in cui le stazioni venivano chiuse. In quell’occasione, dopo più di un’ora vennero le guardie giurate ad aprire e la “colpa” venne scaricata sul traffico!
Questa volta, come allora, abbiamo provveduto a notificare questo grave episodio a tutti gli “stakeholder” della linea: ente gestore (ATAC), ente proprietario (REGIONE LAZIO), Comune di Roma, inoltre abbiamo diffuso il comunicato agli organi di stampa e provveduto a regolare esposto alla Prefettura di Roma e alla Procura della Repubblica di Tivoli.
Non è possibile che non si impari mai dagli errori del passato e questo è ancora più grave. Se ci fosse stato un utente in difficoltà non osiamo pensare a cosa sarebbe potuto succedere in quella stazione chiusa con le persone dentro e non accessibile dall’esterno.
Il fatto è di una gravità UNICA e vanno cercate e trovate le responsabilità perchè è giunta l’ora di finirla di giocare sulla pelle degli utenti che pagano un biglietto o un abbonamento per avere questo “servizio”.
Speriamo che questo nostro grido serva a risvegliare le coscienze sopite in Regione e in altre sedi istituzionali perchè in questo modo non si può più andare avanti.
Comitato Pendolari Ferrovia Roma Nord. Pendolari sequestrati in stazione in fascia di garanzia, 24-10-14.

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Sotto, video sull'argomento :



Globuli bianchi: caccia ai batteri.

Un video che mostra la caccia di un globulo bianco ad un batterio, con successiva distruzione di quest'ultimo:




giovedì 23 ottobre 2014

Che scuola è mai questa ?

Maturità, commissari interni, esterni o, forse, chissà. Ci risiamo: al Miur hanno annunciato una riforma, provato a convincere i contrari che era necessario e altamente positivo cambiare, e persino messo al lavoro per mesi esperti per studiare la riforma e il percorso da seguire. Poi, però, all’improvviso Il Sole 24 Ore ha letto la versione finale della Legge di Stabilità e ha scoperto che della riforma della maturità non c’è traccia. La modifica dei commissari da esterni a interni che avrebbe permesso di risparmiare più di 100 milioni di euro è scomparsa. Si dice che potrebbe rientrare in un altro provvedimento ma in queste ore nessuno è in grado di fornire certezze.  

Che cosa accadrà? Che cosa deve aspettarsi il mezzo milione di studenti che stanno preparandosi all’esame? E che serietà ha una scuola che ancora una volta cambia le regole del gioco in corsa, e a volte continua a cambiarle a lungo rendendo anche più difficile e precaria la prova da superare? E, infine, quale credibilità ha il titolare di un ministero che non riesce a difendere fino in fondo le riforme in cui crede? 

La rivoluzione della maturità era stata, infatti, voluta dalla ministra Stefania Giannini fin dall’inizio del suo incarico, avrebbe dovuto cancellare il meccanismo attuale di una commissione composta da tre commissari esterni, tre membri interni ed un presidente esterno per sostituirla con una commissione composta da soli membri interni lasciando solo al presidente il ruolo di esterno come accade nell’esame di terza media. A giugno, quindi, avrebbero dovuto essere gli insegnanti della classe a valutare per ben due volte - per l’ammissione agli esami e dopo una settimana agli esami di Stato veri e propri - gli studenti giunti all’ultimo anno delle superiori sotto il controllo del presidente. Dopo la marcia indietro del governo ancora non è chiaro, invece, quello che accadrà a giugno. 

Flavia Amabile, Maturità, il giallo dei commissari esterni, "La Stampa", 23-10-14.

Chi sta tramando contro Obama ?

Il Presidente degli Stati Uniti continua ad essere vittima di clamorose falle nel Secret Service. È troppo chiedersi se dietro tutto questo esista una strategia precisa per sopprimerlo o, quantomeno, per creare un clima di tensione e di allarme così pesante da condizionarne l'attività ?


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Ancora un intruso alla Casa Bianca. Ancora il Secret Service in imbarazzo per essersi fatto sorprendere nonostante le misure di Sicurezza fossero state rafforzate dopo gli ultimi episodi. L’ultimo appena un mese fa. 

Stavolta a scavalcare l’inferriata è stato un ragazzo di 23 anni: con indosso una felpa e un paio di pantaloncini bianchi, Dominic Adesanya, di Bel Air, ha oltrepassato le transenne sul lato nord di quello che dovrebbe essere l’edificio più protetto al mondo. Una volta dentro il giardino della Casa Bianca ha alzato la felpa per far vedere agli agenti del Secret Service che non era armato, ignorando i ripetuti appelli della Sicurezza di arrendersi. 

A quel punto sono intervenuti i due cani-poliziotto che lo hanno affrontato. In un video diffuso sul web subito dopo l’accaduto, si vede il giovane opporre resistenza e dare calci e pugni ai due animali, uno dei quali lo ha morso sul braccio. Poi sono intervenuti gli agenti che lo hanno bloccato e arrestato prima di farlo trasportare in ospedale per farsi medicare il braccio. I due cani, Hurricane e Jordan, sono stati portati dal veterinario per le ferite riportate, ma stanno bene. La Casa Bianca è rimasta isolata per quasi due ore. Il presidente Obama era nell’edificio, ma la Sicurezza non ha voluto rivelare dove si trovasse in quel momento, né dov’era la famiglia.  

L’intruso è stato poi accusato di aggressione, minacce e intrusione illegale in edificio protetto, è stato inoltre incriminato per lesioni e aggressione nei confronti dei due cani. Il padre, che non ha voluto essere identificato, ha raccontato che Dominic soffre di disturbi mentali e che aveva provato già due mesi fa a scavalcare l’inferriata. «Si era avvicinato abbastanza ai cancelli, disturbando i turisti e urlando di voler parlare con il presidente», ha detto l’uomo. 

L’ennesimo episodio di infrazione, il settimo in un anno, è accaduto al termine di una giornata in cui negli Stati Uniti l’allerta è stata elevata ai massimi livelli in seguito all’attacco sferrato al Parlamento canadese, con l’uccisione di un militare. E sottolinea ancora una volta le evidenti difficoltà degli uomini del Secret Service. Il mese scorso fece scalpore l’irruzione alla Casa Bianca di Omar Gonzalez il quale, armato di coltello, riuscì addirittura ad addentrarsi nei corridoi della residenza, giungendo fin davanti alla East Room dove fu bloccato da un agente. Fu troppo e l’episodio portò alle dimissioni di Julia Pierson, l’allora numero uno del corpo d’elite addetto alla sicurezza del presidente Usa dopo solo 18 mesi dall’incarico.  

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Sotto, video sull'episodio:



mercoledì 22 ottobre 2014

Un esempio di tenacia e di amore per la vita.

Luisa ha 26 anni e il prossimo 28 ottobre discuterà la sua tesi di laurea in Matematica all’Università Federico II di Napoli, partendo da una media voto di 30 su 30. Solo che Luisa (il nome è di fantasia) la sua tesi la discuterà comunicando solo con lo sguardo, seduta sulla sua sedia a rotelle. Perché questa napoletana «verace» è affetta dalla nascita da tetraparesi spastica, una paralisi che colpisce gli arti impedendo ogni movimento, ma che non le ha impedito di arrivare ad un traguardo difficile per molti coetanei.

L’AIUTO DI VALENTINA. Anche il giorno dell’esame Luisa arriverà in facoltà con Valentina Ianuarii (foto a destra), 32 anni, la giovane assistente alla comunicazione che l’ha accompagnata ogni giorno della sua vita universitaria grazie al progetto Sinapsi (il centro di ateneo per il diritto allo studio delle persone con disabilità). Valentina è stata il “ponte” verso il mondo esterno di Luisa, in un delicato equilibrio che si è trasformato in un’amicizia molto forte: «L’ ho incontrata per caso, ma non immaginavo un percorso del genere. In sei anni Luisa mi ha dato tantissimo», confida per la prima volta a tempi.it

«O TI AMA O NIENTE». Valentina ha incontrato Luisa dopo aver vinto un bando dell’università per un’assistente alla comunicazione alternativa: «Non avevo capito bene di che si trattasse. Ci siamo incontrate la prima volta al centro Sinapsi nel dicembre 2007. Ci siamo subito piaciute a pelle: lei, l’ho scoperto dopo, ha sempre impatti netti. O ti ama o niente da fare. Luisa vive sulla sedia a rotelle, non può parlare, non può muovere nessun arto volontariamente. Compie soprattutto movimenti inconsapevoli. Ma riesce a muovere la testa e comunicare con lo sguardo, rispondendo a domande binarie. Se dice no, alza gli occhi verso l’alto, per dire di sì guarda in basso a sinistra. Poco dopo il primo incontro ci siamo riviste a casa sua, dove io ho fatto un training con la madre, che mi ha insegnato il modo per parlarle. La madre di Luisa, insegnante di matematica, è una persona fantastica. È lei che mi ha insegnato tutto. All’inizio mi dava dei dettagli della vita di Luisa, io dovevo studiarli e poi lei mi interrogava. Superato questo primo periodo, a febbraio 2008 per Luisa c’è stato il primo giorno di università».

IL PRIMO GIORNO. «Quella mattina  - continua Valentina - sono andata a prenderla a casa. Ero più emozionata di lei, perché era il primo giorno anche per me. Luisa veniva da una bellissima esperienza al liceo. All’università si sentiva però spaesata. Le aule sono grandi, ad ogni corso ci sono compagni diversi, che in parte all’inizio l’hanno evitata. L’impatto è stato traumatico. Ho cercato di aiutarla a mettersi in comunicazione con gli altri, senza forzare nessuno. Pian piano qualche collega di corso si è avvicinato, incuriosito». Ricorda ancora Valentina con piacere: «Luisa ha i suoi gusti. Lei è una ragazza che riesce a esprimersi in modo molto diretto. Perciò capita che, se qualcuno le sta simpatico, lei l’accolga con uno dei suoi sorrisi espansivi e che, se si avvicina qualcun altro che non le piace, faccia una smorfia eloquente. È una napoletana verace in questo. Pian piano si è creata la sua “rete”».

IL DONO DELLA MATEMATICA. Valentina spiega che Luisa ha messo in chiaro da subito che non vuole essere trattata da nessuno come una “diversa”. «Il cammino è stato difficile, perché lei ha voluto, e dovuto, dimostrare sul campo quanto vale effettivamente. Io, sinceramente, faccio fatica con la matematica e delle lezioni, davvero difficili, non capivo granché. Lei invece non riesce a tenere lo sguardo fisso molto tempo su un punto, che sia la pagina di un libro o la lavagna. Molti docenti perciò all’inizio si sono interrogati su come potesse seguire effettivamente i corsi. Ci sono due episodi che lo spiegano bene. Un giorno, durante il corso di Analisi matematica, un professore pose una domanda difficilissima. Nessuno degli studenti riusciva a rispondere in modo corretto. Notai che Luisa mi guardava insistentemente: voleva parlare. Le ho riformulato la domanda del professore in modo che lei rispondesse sì o no, poi ho alzato la mano e riferito la sua risposta. Era corretta, e lo stesso docente era meravigliato. In altre occasioni i docenti erano scettici sulla possibilità che lei seguisse le lezioni senza poter annotare le formule. Uno di loro fece una prova sulla lavagna, chiedendomi come avrebbe potuto rispondere alla sua equazione. Mi sono ricordata le parole della mamma di Luisa: mi aveva spiegato che riesce benissimo a fare le operazioni a mente. E così è avvenuto anche in quell’occasione. In pochi secondi, solo osservando la lavagna, Luisa ha memorizzato l’equazione e dato la soluzione corretta».

«NESSUN FAVORITISMO». Per consentire a Luisa di svolgere gli esami è stato congegnato un metodo ad hoc: «Prima un incontro informale di conoscenza con il docente in cui io spiegavo come funziona la comunicazione con Luisa. Poi un training sulla comunicazione tra i due, in modo che si comprendessero e che durante l’esame io diventassi una presenza muta. L’esame veniva preparato formulando domande a risposta binaria, o nel caso di particolari necessità a risposte multipla. Ci sono state materie dove tutto questo è stato più semplice (geometria, analisi e algebra), e altre più difficili (fisica), come ci sono stati giorni sì e giorni no. Il primo esame, lo ricordo bene, è stato di geometria. Lei era emozionata e di conseguenza anche i movimenti del suo sguardo non erano limpidi e netti. Abbiamo dovuto interromperla per qualche istante, per farla rilassare, poi abbiamo ripreso. È andato bene: ha preso 30. Ma poi Luisa è diventata più sicura e ha superato gli esami con voti alti, per lo più 30, qualche 28 e pochi 27. Le domande ad ogni esame sono state sempre minuziose e nessuno l’ha facilitata, anche per sua scelta. Se i colloqui con i professori duravano meno del solito, lei faceva una delle sue smorfie, finché non la rimettevano sotto torchio. Alcuni insegnanti le hanno detto esplicitamente che il suo livello di preparazione è elevato e superiore alla media».

«MI HA DATO TANTISSIMO». E così Luisa è arrivata alla discussione della tesi in algebra, la sua materia preferita. La stesura della tesi, come anche alcune forme di comunicazione sociale più elaborate, sono state rese possibili grazie ad un linguaggio particolare ideato dalla madre di Luisa. Spiega Valentina: «La madre ha realizzato un cartoncino con le lettere dell’alfabeto. Tenendo fermo il polso di Luisa, lei può muovere le dita, indicare le lettere, e così formare delle parole. È con questo metodo che ha “dettato” alla mamma la sua tesi. E sempre così ha “dettato” a me, spesso, i testi dei messaggi ai suoi amici. Luisa infatti nel tempo libero ama molto usare la chat di Facebook e chiacchierare con i compagni, preferibilmente senza che la madre si intrometta, come tutti i suoi coetanei». Il 28 ottobre Luisa terminerà il suo percorso universitario, ma Valentina continuerà a frequentarla perché «Luisa in sei anni mi ha dato tantissimo. Non è stata solo un’esperienza incredibile, e forse irripetibile, dal punto di vista professionale. Dal punto di vista umano Luisa mi ha dato anche di più. Con la sua condizione molto particolare, mi ha costretta a vedere il mondo e le persone oltre le parole e gli schemi. All’inizio credevo fosse impossibile comunicare con lei e adesso riusciamo a capirci anche solo con lo sguardo: è molto amata, è una persona gioiosa, come nessuno penserebbe a causa della sua malattia. Voleva raggiungere quest’obiettivo per dimostrare a se stessa che ce la poteva fare. Ed è stato così, tra lo stupore di tutti».



Ebola. UE fuorilegge ?

La Lega assume sovente posizioni un po' troppo radicali, ma credo che le osservazioni di Salvini e di Borghezio che si propongono oltre non siano da respingere a priori. Anzi, sono quasi in linea con quanto è già apparso su questo blog circa la colpevole inerzia con cui i vertici europei da mesi affrontano la catastrofe umanitaria rappresentata da Ebola.
Un'inerzia  -e una leggerezza-  che secondo alcuni esperti sarebbero più che sufficienti per portare i massimi responsabili della UE al cospetto di un Tribunale Internazionale. 





martedì 21 ottobre 2014

MSF. Millesima vita strappata a Ebola.



A raccontare la storia di James è il padre Alexander, promotore della salute per Msf, impegnato a settembre - quando la sua famiglia è stata colpita dal virus in Liberia - in visite ai villaggi lontano da casa per spiegare l'Ebola: come proteggere se stessi e le proprie famiglie, cosa fare alla comparsa dei sintomi, garantendo che tutti conoscessero il numero di Msf da chiamare in caso di necessità. La moglie non credeva alla pericolosità della malattia e non aveva voluto lasciare Monrovia con i bambini, come Alexander le aveva chiesto. La donna si era ammalata ed era morta. Stessa sorte era toccata al fratello di Alexander, infermiere che aveva curato la cognata. "Le mie due figlie più piccole sono state portate nel centro di Msf a Monrovia, ma erano molto malate e non ce l'hanno fatta. Mi sembrava di impazzire".

"Il maggiore dei miei figli, James - racconta Alexander - era ancora a Monrovia, nella casa di famiglia. Mi ha chiamato e mi ha detto: 'tutti si sono ammalati e io non so cosa fare'. Gli ho detto di venire a Foya per stare con me. Quando è arrivato, le persone del villaggio ci hanno allontanato. Dato che i nostri famigliari erano morti, mi hanno detto di portar via James. Ci siamo dovuti trasferire. La mattina seguente mio figlio sembrava più stanco del solito. Ero preoccupato. Non aveva i sintomi della malattia, sembrava solo stanco. Ho chiamato il numero d'emergenza per l'Ebola e Msf l'ha portato al centro di trattamento a Foya per fare il test che è risultato positivo". 

"Il giorno dopo gli psicologi di Msf mi hanno calmato, mi hanno detto di aspettare, di stare tranquillo. Ho potuto vedere James nel centro di trattamento da dietro la recinzione e gli ho detto: 'Figlio, sei la mia unica speranza. Devi avere coraggio. Devi prendere tutte le medicine che ti daranno'. Lui ha risposto: 'Papà, ho capito, lo farò. Smetti di piangere, non morirò, sopravvivrò all'Ebola. Le mie sorelle se ne sono andate, ma io sopravvivrò e sarai fiero di me'".

"Fino al giorno in cui l'ho visto uscire, non riuscivo a credere che sarebbe successo veramente. Ero così felice. L'ho guardato e mi ha detto 'Pa', io sto bene'. L'ho abbracciato. Molte persone sono venute a vederlo non appena è stato dimesso. Erano tutti così felici di vederlo fuori. Quando l'ho portato a casa ho deciso di fare una piccola festa per lui. Da allora, io e mio figlio facciamo tutto insieme. Dormiamo insieme, mangiamo insieme e conversiamo molto. Un giorno mi ha detto che vorrebbe studiare biologia e diventare un medico. Proprio così. Ora che mio figlio è guarito dall'Ebola - dice l'uomo - vivremo solo per noi due. Voglio fare tutto il possibile per far sì che realizzi i suoi sogni e possa avere successo nella vita".

Annuncio di MSF, Il diciottenne James Kollie è il 1000° paziente sopravvissuto all’Ebola, Rai News, 21-10-14.


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lunedì 20 ottobre 2014

Scuola e mondo del lavoro. Un dialogo impossibile?

Bastano alcuni dati per capire quanto pesa la scarsa comunicazione tra la scuola e il lavoro. 

In Italia solo il 4% dei ragazzi tra 15 e 29 anni riesce a integrare studio e lavoro (il 22% in Germania); l’abbandono scolastico è al 17,6% (in Europa al 12,6%); solo quattro imprese su dieci hanno frequenti contatti con la scuola (il 70% in Germania) e quando cercano personale lamentano una difficoltà di reperimento di figure tecniche che supera il 40%. C’è da chiedersi che cosa aspettiamo per mettere in comunicazione questi mondi. L’andamento della consultazione on line sulla buona scuola, che scade tra pochi giorni, conferma invece che i principali temi di accesa discussione sono quelli che stanno «dentro la scuola» e non «tra scuola e realtà» circostante. E’ importante parlare di insegnanti, graduatorie, supplenze e risorse, ma al tema scuola-lavoro viene riservata scarsa attenzione. Del resto nell’agenda proposta dal ministero solo due punti su 12 riguardano la scuola e il lavoro. Ci ha provato anche Confindustria con le sue «100 proposte per la scuola» di cui una trentina riguardano il rapporto scuola-lavoro, ma l’uscita pubblica non ha ancora trovato un’adeguata attenzione. Colpisce sul tema il silenzio dei sindacati. Il dialogo tra sordi deve essere sostituito da una più stretta collaborazione.  
La disoccupazione giovanile (44,2%) ha molto a che fare con la scarsa comunicazione tra i due mondi. L’Europa ci chiede di lavorare sulle quattro priorità della Vet (Vocational educational training): alternanza, apprendistato, istruzione tecnica e professionale, autoimprenditorialità. Ma noi sembriamo ancora fermi alla vecchia triade della vita: prima si studia, poi si lavora, poi si va in pensione; sappiamo bene quanto sia cambiato il nostro piccolo mondo antico. Eppure le migliori pratiche dei nostri concorrenti dovrebbero guidarci. Sono almeno dieci le proposte attuabili. Innanzitutto un piano di orientamento nazionale, dalla scuola media, per accompagnare le scelte e rafforzare le iscrizioni alle discipline tecnico-professionali. Va resa obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni delle superiori. Anziché soffocarlo, l’apprendistato avrebbe bisogno di un rilancio sia per l’acquisizione di qualifiche sia per l’alta formazione (modello duale).  

Gli imprenditori che svolgono attività di formazione per i giovani vanno incentivati e premiati. L’offerta formativa dopo il diploma dovrebbe arricchirsi di un nuovo ordinamento aggiuntivo, oltre all’università, attraverso l’istruzione tecnica superiore, sul modello tedesco. L’inefficacia della formazione in Italia dipende anche dalla frammentazione in 20 sistemi regionali, per i quali andrebbe prevista una regia e un coordinamento nazionale. Stage e tirocini dovrebbero diventare obbligatori sia negli istituti tecnici che nei licei con una durata almeno doppia. Ogni istituto superiore dovrà dotarsi di ufficio placement e banche dati per favorire i contatti con il mondo produttivo. Per ovviare alla carenza di risorse si possono usare i laboratori aziendali aprendoli alle classi. Infine, è tempo che le scuole si colleghino in rete ai fabbisogni e ai monitoraggi nazionali e territoriali, per legare più strettamente la domanda e l’offerta di lavoro.  
Walter Passerini, Così la scuola può aiutare l'occupazione, "La Stampa", 18-10-14.