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lunedì 30 marzo 2015

Apprendistato e scuole svizzere all'estero.


Per le scuole svizzere all’estero si aprono strade promettenti. La nuova legge ha posto le basi per allargare l’offerta all’apprendistato, un modello di successo elvetico, per il quale cresce l’interesse internazionale. Ma per raggiungere le mete ci vorranno tempo e impegno.

La nuova Legge sulla diffusione della formazione svizzera all’estero dà a queste scuole la possibilità di estendere l’offerta sovvenzionata dalla Confederazione, creando anche un curricolo di formazione professionale di base che coniuga la formazione pratica in azienda con l’istruzione teorica nella scuola. L’esportazione del modello elvetico di apprendistato, che suscita sempre più interesse all’estero, è del resto una priorità strategica della Confederazione nell’ambito della cooperazione internazionale in materia di formazione.
“Vogliamo cercare di diffondere la formazione duale a livello internazionale perché siamo convinti che è un buon tipo di formazione”, spiega Gaétan Lagger, sostituto capo Progetti internazionali in materia di formazione presso la Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI). E le scuole svizzere all’estero “potrebbero dare un impulso supplementare alla nostra strategia”.
 (swissinfo.ch)

“Pensiamo che le scuole svizzere all’estero siano un luogo ideale per sviluppare la formazione professionale duale a livello internazionale, perché lì questa cultura è presente, gli allievi hanno delle competenze linguistiche e perché questi istituti potrebbero trovare delle filiali di aziende svizzere come partner. Siamo fiduciosi, ma al contempo siamo anche coscienti che si tratta di un lavoro difficile e di lungo respiro”, afferma Fiona Wigger, collaboratrice scientifica dell’Ufficio federale della cultura.

Esempi precursori

Benché sia ancora in fase di discussioni preliminari, l’idea suscita interesse. Alla Conferenza annuale 2014 di educationsuisse, l’organismo centrale delle scuole svizzere all’estero, la formazione professionale duale è stata il tema principale, precisa il suo presidente Derrick Widmer.
Modello elvetico sì, ma con adattamenti
Garantire una qualità di formazione dello stesso livello di quella nella Confederazione e al contempo una capacità di adattamento a strutture e condizioni locali: è questa la chiave del successo dell’esportazione del modello svizzero di apprendistato, concordano Marco Mathis, delegato della SITECO per il campus di formazione professionale duale a Cikarang, sull’isola indonesiana di Giava, e Arthur Glättli, responsabile di Swissmem per il progetto ‘Swiss VET Initiative India’. Per la sua riuscita in altri paesi, è fondamentale implementare il modello svizzero con la strategia del bottom-up e con i dovuti accorgimenti, sottolinea Marco Mathis.
I rappresentanti di questi istituti hanno così potuto scoprire nei dettagli due esperienze elvetiche che fungono un po’ da battistrada: degli apprendistati di polimeccanica e meccatronica in Indonesia, tramite la SITECO (Association for Swiss International Technical Connection), e in India, attraverso una collaborazione tra enti pubblici e privati.
Entrambi i progetti hanno incontrato ostacoli. “Il maggior problema è trovare aziende locali disposte a finanziare la formazione”, dichiara Arthur Glättli, responsabile dell’associazione dell’industria metalmeccanica ed elettricaSwissmem per il progetto ‘Swiss VET Initiative India’. La stessa difficoltà è stata affrontata in Indonesia, dove è stata superata in modo originale: la scuola professionale in cui viene impartito l’insegnamento teorico è proprietaria dell’azienda in cui viene effettuata la formazione pratica, spiega Marco Mathis, delegato della SITECO.
Le scuole svizzere all’estero che vorranno lanciarsi nella formazione professionale di base potranno trarre insegnamenti dalle esperienze conseguite in questi progetti pionieristici. Tuttavia dovranno superare una barriera supplementare: la formazione dovrà portare a un diploma equivalente a un certificato di capacità federale e dovrà essere riconosciuto anche dal paese in cui si trova la scuola, sottolinea Fiona Wigger.

Niente più soglia minima di allievi svizzeri

L’offerta di una formazione professionale in scuole svizzere all’estero non sarà dunque per domani. Fattibile a breve termine appare invece l’ampliamento di alcuni di questi istituti, grazie alla fine dell’obbligo di avere una quota minima del 20% di allievi di cittadinanza svizzera.
Non sono più solo questi ultimi a determinare il numero di docenti svizzeri finanziati dalla Confederazione, ma soprattutto il totale degli allievi. “Si parte dall’idea che le scuole debbano avere un numero conseguente di insegnanti svizzeri per trasmettere l’educazione e la cultura elvetiche”, indica Fiona Wigger.
 (swissinfo.ch)

 
Molti allievi di nazionalità svizzera non sono nemmeno nati nella Confederazione: sono di seconda o addirittura di terza generazione, rileva Irène Spicher, codirettrice di educationsuisse. Perciò la trasmissione dei valori elvetici – compito assegnato dal parlamento alle scuole svizzere all’estero – non avviene ad opera di costoro, bensì dei docenti.
Questa innovazione rallegra sia le scuole con molti allievi sia quelle che finora dovevano rifiutare degli alunni di altre nazionalità perché avevano troppo pochi svizzeri. Amaro in bocca invece per le scuole con un’elevata proporzione di allievi elvetici, che accuseranno un calo di contributi della Confederazione.
“Alcune riceveranno tra il 5 e il 15% in meno di quanto ricevevano finora. La riduzione viene però scalata progressivamente su tre anni. In questo modo l’impatto sarà graduale e le scuole avranno il tempo di adattarsi, per esempio ingrandendosi e ristrutturandosi”, puntualizza Fiona Wigger.
Tuttavia il presidente del consiglio della Scuola svizzera di Milano, Robert Engeler, e il direttore di quella di Barcellona, Pascal Affolter, sono unanimi: attualmente per gli istituti in paesi europei, che sono tra i principali perdenti, non si profilano probabilità di espansione. “La crisi economica che c’è in Europa non è propizia a far crescere il numero degli allievi. In questo momento vedo più possibilità di ingrandirsi per le scuole svizzere che si trovano in America latina”, dice Affolter, che prima di quella di Barcellona ha diretto per sette anni la scuola svizzera di Bogotà.

Ambizioni nei paesi emergenti

Quanto alla nascita di nuove scuole svizzere all’estero, sono in corso discussioni. In Cina, per esempio, è stata fondata un’associazione che ha lo scopo di crearne una, indica Derrick Widmer. A suo avviso si dovrebbe agire rapidamente, soprattutto nei paesi emergenti.
L’impresa non è però facile in un settore dove c’è un’agguerrita concorrenza di scuole internazionali private. Tanto più che “oggi tra gli espatriati non c’è più lo stesso sentimento di appartenenza a una colonia svizzera che c’era una volta. Oggi ci si sposta e si comunica facilmente, ognuno ha il proprio cellulare, il collegamento ad internet. Non c’è più il bisogno di legami tra connazionali all’estero”.
E in questo contesto non ci sono più molti espatriati “disposti a mettere mano al portafoglio per creare una scuola svizzera, che non può essere a scopo di lucro”, si rammarica il presidente di educationsuisse.
“La vecchia legge è stata in vigore per 28 anni. Dunque con la nuova legge abbiamo creato le fondamenta per parecchi anni – commenta Fiona Wigger –. Speriamo che vengano realizzati dei progetti, come nuove fondazioni o curricoli professionali. Ma per provare l’utilità della legge ciò non deve necessariamente avvenire nel primo anno”. 
 Scuole svizzere all’estero
Attualmente vi sono 17 scuole svizzere sparse in Europa, Asia e America latina. Complessivamente sono frequentate da circa 7'500 allievi di cui 1'800 di nazionalità elvetica.
Questi istituti veicolano tipici valori svizzeri. “In primo luogo il plurilinguismo, che è il loro atout principale. Poi la disciplina, l’affidabilità e il pensiero critico”, spiega la codirettrice di educationsuisse, Irène Spicher.
L’insegnamento è sempre almeno bilingue: in una lingua nazionale svizzera e nella lingua locale o in inglese. Nel livello medio superiore una seconda lingua nazionale svizzera dev’essere materia d’insegnamento. I programmi devono portare a certificati di studio riconosciuti sia dal paese ospitante, sia dalla Svizzera.  
Sonia Fenazzi, Apprendistato: le scuole svizzere all'estero ci pensano, "Swissinfo.ch", 29-03-15.

sabato 28 marzo 2015

La rete ? Per Andrew Keen è una falsa rivoluzione.

C’è stato un tempo in cui su internet si sprecavano i commenti entusiastici. Evangelisti e profeti del web parlavano nel vuoto, pochi li ascoltavano, pochi li comprendevano. Oggi invece trovano più spazio i sostenitori di un pensiero critico, che mette in discussione il web com’è e com’è diventato. Uno dei più famosi è Andrew Keen, 55 anni, londinese trapiantato in California: in The Cult Of The amateur prima, Digital Vertigo poi e ora Internet Is not The Answer ha discusso i lati oscuri di internet, smontando e confutando il paradigma di un ottimismo secondo cui il digitale è sempre sinonimo di benessere e progresso. «Ma non nego che ci siano aspetti positivi - spiega - e non penso che si possa o si debba tornare indietro».  

In Italia per alcuni incontri col pubblico (martedì scorso a Torino, mercoledì a Milano per Meet The Media Guru), Keen ha ben chiaro che in Europa e in particolare da noi può essere controproducente parlare di aspetti negativi del web quando ancora si fa fatica a percepire quelli positivi: «Il mio è un punto di osservazione privilegiato, in Usa certi processi sono iniziati prima. Ma quando arriveranno anche in Italia bisognerà saperli interpretare». Keen insiste molto sul potere che internet ha di rimettere in discussione strutture e sistemi consolidati, e cita l’esempio di Uber che ha causato reazioni fortissime tra i tassisti (anche in Italia), di AirBnb, il sito di affitti di alloggi tra privati che oggi vale la metà della catena alberghiera di lusso Hilton, dedica un intero capitolo alla cittadina di Rochester, dove quasi tutti gli abitanti lavoravano per Kodak e ora non hanno un impiego, e spesso nemmeno una pensione. Ma sarà davvero colpa di Instagram, come dice lui? «È l’equivalente più vicino a quello che faceva Kodak una volta - risponde -. Anche se, come accade sempre con Internet, il digitale non corrisponde esattamente all’equivalente analogico».  

Molto ricco e documentato, con due capitoli dedicati alla storia del World Wide Web, il libro di Keen insiste parecchio sul fatto che le promesse iniziali del web non sono state mantenute. Eguaglianza, libertà di espressione e partecipazione, democrazie sono parole vuote, o addirittura ipocrite» se pronunciate oggi da uno come Zuckerberg. Perché? «Con il progetto Internet.org dice di voler portare internet ai Paesi emergenti, ma in realtà il suo scopo non è quello di dar voce a chi non ne ha una: dietro i proclami idealistici c’è una strategia commerciale mascherata da filantropia».  

Lasciata alle sue regole, la Rete non è un meccanismo di distribuzione di profitti, ma tende invece a concentrarli nelle mani di pochi fortunati: «È una delle maggiori accumulazioni di ricchezza della storia. Aziende come Google e Facebook vendono la nostra privacy al miglior offerente, con la pubblicità che ci segue ovunque, tagliata esattamente sui nostri gusti. E ogni volta che facciamo una ricerca o postiamo qualcosa, stiamo lavorando per loro, gratuitamente, offrendo informazioni sempre più precise per aiutarli a farci diventare un target perfetto».  
È allora il caso di invocare leggi che ci proteggano oppure è troppo tardi? «Dall’Europa sono venute le prime obiezioni concrete all’idea che su internet il vincitore prende tutto e detta le sue regole. Prima uno stop alle concentrazioni monopolistiche, che ha colpito Microsoft, ora la questione del diritto all’oblio, che riguarda Google. Un governo deve immaginare regole che permettano lo sviluppo, ma al contempo siano capaci di indirizzarlo in una direzione precisa».  

La politica è la risposta allora? «Non lo so, certo non è internet». Internet, nella visione di Keen, è semmai una nuova rivoluzione industriale, come quella del ferro e del vapore nell’800: «Anche allora c’era chi vi si opponeva, e col senno di poi possiamo dire che era una posizione senza senso». Ci si può ancora opporre, forse, all’avanzata delle tecnologie da indossare e degli oggetti connessi: «Gli smartwatch potrebbero diventare una seria invasione della privacy, l’Internet delle cose potrebbe limitare ulteriormente il nostro spazio privato. Davvero ci serve avere un aggeggio al polso per avvisarci ogni volta che arriva una mail?», si chiede Keen. Tira fuori il suo iPhone 6 Plus e mostra l’app di posta elettronica: «Io penso che la cosa migliore delle mail non sia la notifica, ma il tasto elimina».  

Bruno Ruffilli,  Andrew Keen: “Internet, una falsa rivoluzione”, La Stampa, 27/03/15.  

Nuove frontiere della robotica.

Giocare a pallone o a basket con agili robot umanoidi capaci anche di ballare, provare emozioni e assistere disabili e anziani, garantendo loro la massima protezione. Avere a disposizione robot comandati a distanza, in grado di lavorare in ambienti ostili senza far correre rischi all’uomo, o indossare isoscheletri robotici per assistere nella camminata e nei gesti quotidiani persone con mobilità ridotta. Il futuro non è mai stato così vicino e potrà essere toccato con mano dal 26 al 28 marzo 2015 presso i padiglioni di Fiere di Parma nel corso di MECSPE, la fiera internazionale delle tecnologie per l’innovazione, organizzata da Senaf, vero e proprio punto di riferimento per il comparto della meccanica e della subfornitura. 

La manifestazione offrirà una panoramica completa di materiali innovativi, macchine, lavorazioni e sistemi per implementare la produzione, con 1.229 espositori, 31 isole di lavorazione, 15 quartieri tematici, 9 saloni tematici, 10 piazze d’eccellenza, 103 tra convegni e miniconferenze organizzati da aziende, università e istituti di ricerca. 

Tra queste, spicca sicuramente la Piazza della Robotica & degli Umanoidi in cui verrà analizzata a fondo l’interazione uomo-macchina che in questi ultimi anni, grazie soprattutto agli algoritmi automatici di apprendimento del movimento umano, ha fatto passi da gigante. Così sarà possibile interagire con Nao, un umanoide presentato dall’Università degli Studi di Padova in grado di ballare e di rialzarsi in caso di caduta, di capire cosa gli viene detto e rispondere con la sua voce, o con Orobot, un robot autonomo sviluppato per assistere gli anziani in casa, capace di identificare le persone, segnalare qualsiasi evento si verifichi all’interno delle mura domestiche, rilevare intrusioni ed effettuare chiamate in videoconferenza. 

Le ultime frontiere della robotica presenti a Mecspe riguarderanno anche innovazioni rivolte al mondo della riabilitazione e al miglioramento della deambulazione per le persone con mobilità e indipendenza ridotta. In particolare, l’Istituto di Biorobotica della scuola di Sant’Anna presenterà due progetti di robotica indossabile inerenti a questo problema: WAY, un esoscheletro di mano volto al recupero della funzionalità della mano post trauma con assistenza funzionale alla presa degli oggetti e il progetto CYBERLEGs, incentrato sulla realizzazione di un sistema di ausilio alla camminata naturale per soggetti a mobilità ridotta, quali anziani o amputati. Una protesi robotizzata che, grazie ad una sorta di servomotore, asseconda in maniera attiva il movimento dell’arto permettendo a chi ha subito un’amputazione, di camminare, salire le scale, alzarsi con il minimo sforzo fisico. 

MECSPE: a Parma le ultime frontiere della robotica, La Stampa, 27/03/15. 

Baltico. Prove tecniche di guerra.

L’ex Comandante dei Vigili del Fuoco lettoni, Ainars Pencis, osserva dalle pagine di Diena che la Lettonia odierna non ha alcuna esperienza di guerra e quindi è difficile dire se in questa specifica eventualità le forze di sicurezza pubblica siano pronte ad affrontare l’emergenza. Qualcuno ha suggerito di chiamare i colleghi ucraini e chiedere qualche consiglio tecnico, data la loro drammatica recente esperienza.
“Si tratta di raccomandazioni alla base di ogni situazione di emergenza civile. Ma di fatto anche di fronte a un evento di guerra, metteremmo in pratica le stesse procedure che si usano in caso d’incendio, disastri chimici, alluvioni, etc” spiega Kristaps Eklons, Vice-Comandante del Valsts ugunsdzēsības un glābšanas dienesta (VUGD), una sorta di corpo che unisce quelli che in Italia sono i Vigile del Fuoco e la Protezione Civile.
Secondo il Valsts ugunsdzēsības un glābšanas dienesta in realtà affrontare le emergenze di una guerra non sarebbe così diverso, per un corpo civile quale il VUGD, dall’affrontare particolari emergenze gravi che possono succedere ogni giorno, come alluvioni, crolli o incendi di grandi dimensioni.
“E’ come per i medici – dice Pencis – dobbiamo capire di dover salvare solo chi può essere salvato, concentrare le forze in modo efficiente. Anche se quando si tratta di salvare delle persone, la cosa non è facile”.
Tuttavia, la preparazione dei corpi di sicurezza dello Stato non è tutto. La chiave per evitare danni e perdite ingenti è che tutta la popolazione abbia un minimo di preparazione. Come in un’evacuazione si fanno le prove, anche per casi estremi di pericolo, quale la guerra, bisognare sapere cosa fare ed essere preparati. A questo serve il Vademecum che in questi giorni, pare, sia in distribuzione in Lettonia.
“Sarebbe importante sapere, in caso di evacuazione, cosa portare con sè: coperte, tende, coltelli o un’ascia. Non basta saper accendere un fuoco con i fiammiferi. Ho visto gente ridere quando abbiamo detto che avere un’ascia in certe situazione può salvarti la vita. Ma sarebbe importante che le persone capissero che sapere come sopravvivere e come salvare i propri cari è fondamentale in certe situazioni di pericolo. Non sempre i Vigili del Fuoco arrivano in tempo”.
Che quando suonano le sirene sia un segnale di allarme lo sanno tutti. Ma quanti si ricorderebbero in questo caso di accedere subito la tv o la radio per sapere cosa succede e se ci sono istruzioni specifiche da seguire? Quanti sanno dove si trova il luogo di raccolta vicino alla propria casa o al proprio luogo di lavoro in caso di emergenza?
Il Vademecum contiene una lista di cose da portare con sé quando si evacua, un elenco di accorgimenti da mettere in atto nel caso in cui invece non si possa uscire dall’edificio o dalla casa in cui ci si trova – come essere muniti di sacchi di sabbia o di qualcosa con cui rivestire le finestre perché i vetri non siano la prima cosa a rompersi – e suggerisce di sigillare le finestre con panni bagnati in caso di indicente chimico, per non far entrare l’aria in casa.

‘Cosa fare se scoppia la guerra’. Lettonia e Lituania pensano a un vademecum, Baltica, 28/03/15. 

mercoledì 25 marzo 2015

La neutralità svizzera compie duecento anni.

Duecento anni fa, le grandi potenze si riunirono a Vienna per riorganizzare un’Europa appena uscita dai tumulti rivoluzionari. Il Congresso di Vienna segnò anche il punto d’inizio di una neutralità divenuta tratto distintivo della Svizzera moderna. Una neutralità più imposta che scelta, ricorda lo storico Olivier Meuwly.

La vecchia Confederazione – mosaico di 13 cantoni, alleati, baliaggi comuni e altri territori soggetti – scompare con l’invasione francese del 1798. La Svizzera diventa allora una repubblica «una e indivisibile» sul modello francese, in cui i cantoni non sono altro che semplici prefetture.
Poiché la situazione politica rimane tesa, Napoleone impone la sua mediazione nel 1803, facendo della Svizzera un paese costituito di 19 cantoni autonomi e uguali, dotato di una dieta federale. La storiografia recente vede in questo Atto di mediazione l’inizio della Svizzera «moderna».
Paese satellite della Francia, la Svizzera subisce in pieno i contraccolpi della disfatta di Napoleone nel 1814. Dopo Parigi, ora il futuro si scrive a Vienna, dove si riuniscono le potenze vincitrici.

swissinfo.ch: Qual è l’importanza del Congresso di Vienna per la Svizzera?

Olivier Meuwly: La posta in gioco è importante. Ci sono due campi avversi. I cantoni della Confederazione del 1798 vorrebbero tornare all’Ancien régime. I nuovi cantoni non vogliono sparire.
Il ruolo delle persone è importante. Frédéric-César de La Harpe, ex precettore dello zar Alessandro I, si attiva per aiutare il cantone di Vaud a mantenere la su indipendenza e quindi a conservare la Svizzera dei 22 cantoni (i 19 cantoni usciti dall’Atto di mediazione più Neuchâtel, Ginevra e Vallese). Come tutti, è ostile a Napoleone, ma vuole salvare una cosa del suo sistema: la Mediazione e la struttura dei 22 cantoni che assicurava l’equilibrio pacifico in una Svizzera turbolenta e che malgrado tutto era importante per le potenze.

swissinfo.ch: Perché la piccola Svizzera era importante per le potenze?

O. M.: La Svizzera è una delle regioni cuscinetto tra la Francia e l’Austria. Tutti vogliono avere il controllo su questo territorio ai piedi delle Alpi, che assicura l’accerchiamento della Francia.
Olivier Meuwly
Lo storico Olivier Meuwly è dottore di ricerca in diritto e lettere dell’università di Losanna.
Attualmente è vice del segretario generale del Dipartimento delle finanze e delle relazioni esterne del cantone di Vaud.
È autore di varie opere sulla storia del canton Vaud, della Svizzera e delle idee e dei partiti politici.
La neutralità alla fin fine metterà d’accordo tutti quanti. Poiché la Svizzera non riesce a essere stabile, si decide che è neutrale e gli svizzeri se ne faranno una ragione, anche se non rivendicano loro stessi la neutralità. Non c’è un progetto per la neutralità; sono le circostanze che fanno che la Svizzera sia dichiarata neutrale dagli altri.
Alla fine è Alessandro I che decide la sorte della Svizzera, perché è il capo della Coalizione. D’accordo con La Harpe, decreta che la Svizzera dei 22 cantoni sarà mantenuta, mentre il cancelliere austriaco Metternich era piuttosto favorevole al canton Berna e al ristabilimento della vecchia Confederazione.

swissinfo.ch: La Svizzera moderna può quindi dire grazie ai russi…

O. M.: È sempre delicato attribuire fenomeni storici a singole persone. Ma in questo caso, credo che il ruolo delle persone sia stato considerevole. Se non ci fosse stata un’amicizia molto solida e un reciproco rispetto tra de La Harpe e Alessandro I, lo zar avrebbe ugualmente dato seguito alle rivendicazioni del vodese? Non è escluso, ma l’esistenza di un legame personale ha certamente favorito questa scelta.
De La Harpe è senza dubbio lo svizzero cui sarà riconosciuta la posizione più importante nella storia del mondo. Mai uno svizzero è stato tanto vicino alle grandi questioni internazionali e ai grandi leader. È sempre fra gli intimi dello zar, dall’arrivo dei russi in Francia fino al termine del Congresso di Vienna. È il capo dell’anticamera, il segretario privato. È uno dei veicoli di contatto tra lo zar e il resto del mondo.

swissinfo.ch: Alcuni individuano nella battaglia di Marignano del 1515 l’origine lontana della neutralità svizzera, perché in seguito a questa disfatta, la Confederazione si è ritirata dalle grandi questioni militari europee. Cosa ne pensa?

O. M.: Mi sembra un errore. I cantoni svizzeri non erano neppure tutti presenti a Marignano. Mi sembra difficile tracciare dei legami tra questa battaglia e la neutralità.
Di fatto, i primi frammenti a livello di diritto internazionale che testimoniano del riconoscimento di un corpo elvetico indipendente risalgono al trattato di Vestfalia del 1648, che mette fine alla Guerra dei trent’anni. Si può dire che da quel momento comincia a esistere una Svizzera riconosciuta come tale e più o meno neutrale.

swissinfo.ch: La Svizzera nel 1815 non chiede di essere neutrale, mentre oggi la neutralità è diventata una delle sue caratteristiche essenziali. Com’è avvenuta questa evoluzione?

O. M.: Nel XIX secolo la neutralità non si impone come principio guida. È solo la conseguenza di una Svizzera indipendente che si afferma sulla scena internazionale. Gli svizzeri hanno però capito che se non sono neutrali, devono per forza stare da una parte. Ma da quale? Durante la guerra franco-prussiana del 1870 e durante la Prima guerra mondiale, la Svizzera ha dichiarato la sua neutralità. Era un buon modo per non dover scegliere.
Sarà l’aspetto umanitario a dare corpo a questa neutralità. Questa nozione di neutralità è uno stimolo utile; non solo un ritrarsi, ma anche un modo per essere a disposizione. Dopo le due guerre mondiali, la neutralità vive il suo momento di gloria con la Guerra fredda.
Bisogna anche dire che questa Svizzera, di fatto neutrale, è sempre stata considerata interessante. Se de La Harpe, il repubblicano, diventa precettore del futuro zar, non è evidentemente per le sue opinioni politiche. In compenso, parla francese, la lingua della diplomazia, e Caterina I lo prende al suo servizio perché preferisce vedere suo nipote istruito da un repubblicano svizzero piuttosto che da un aristocratico francese che potrebbe fare il doppio gioco. Il fatto di essere fuori dalle grandi questioni militari e politiche è sempre stata una carta utile per la Svizzera. Soprattutto dopo il 1945, quando ha potuto davvero realizzarsi nel suo ruolo di prestatrice di buoni uffici.
Frédéric-César de La Harpe è certamente stato lo svizzero più influente della storia, afferma Olivier Meuwly. (Wikipedia)

Frédéric-César de La Harpe è certamente stato lo svizzero più influente della storia, afferma Olivier Meuwly.
(Wikipedia)

swissinfo.ch: Nonostante i suoi vantaggi, la neutralità fa però sempre discutere. Pensiamo al concetto di «neutralità attiva utilizzato dall’ex ministra degli esteri Micheline Calmy-Rey. Più di recente, anche il suo successore Didier Burkhalter è stato criticato in Svizzera e all’estero per il suo ruolo nella crisi ucraina, nelle vesti di presidente dell’OSCE…

O. M.: La neutralità non può essere un concetto immobile. Ogni principio politico deve essere messo in discussione, essere messo a confronto con l’attualità, con la sua pertinenza, con la sua evoluzione. Sono anch’io un appassionato della democrazia diretta, ma non si tratta di una norma sacrale creata da una divinità superiore. Anch’essa può essere oggetto di discussione.
È un po’ il problema della Svizzera: si ha la tendenza, sia a destra, sia a sinistra, a mitizzare le cose e questo è problematico. Un caso tipico è la neutralità. È una nozione che per forza deve fare i conti con la realtà. Cosa vuol dire essere neutrali? È una cosa che può cambiare. Non si potrà mai dire: siamo neutrali e basta. Questo in sé non vuol dire niente.
Congresso di Vienna
Il Congresso di Vienna si è svolto tra il 18 settembre 1814 e il 9 giugno 1815. Il suo obiettivo era di riorganizzare l’Europa sotto la direzione delle quattro potenze che avevano sconfitto Napoleone: la Russia, l’Inghilterra, la Prussia e l’Austria.
La Dieta federale svizzera inviò tre rappresentanti a Vienna. Vari cantoni, regioni e città fecero lo stesso. A causa degli interessi spesso divergenti, i rappresentanti svizzeri diedero sovente l’impressione di una Confederazione disunita.
In seguito alla fuga di Napoleone dall’isola d’Elba e al suo ritorno in Francia, il 20 marzo 1815 il congresso adottò una dichiarazione relativa alla Svizzera. Essa garantiva l’integrità dei 22 cantoni e affermava che la neutralità perpetua della Svizzera era nell’interesse degli Stati europei.
(Fonte: Dizionario storico della Svizzera)
(Traduzione dal francese: Andrea Tognina), swissinfo.ch .

Olivier Pauchard, Il giorno in cui la Svizzera è diventata neutrale, "Swissinfo.info", 20-03-15.

Knuts Skujenieks: “Dobbiamo essere pronti, sia fisicamente che moralmente a difendere la nostra patria”.

“Non dobbiamo dormire sugli allori. Bisogna essere vigili, attenti e pronti ad affrontare qualsiasi trasformazione del  nostro destino”. Questo è il monito del più grande poeta vivente in Lettonia, Knuts Skujenieks, intervistato nei giorni scorsi dal canale LNT.
Skujenieks ha passato sette anni della sua vita in un campo di lavoro in Mordovia, dal 1963 al 1969 in epoca sovietica, e conosce bene gli scherzi del destino e la durezza della vita dei lettoni durante le occupazioni straniere, anche se in questi anni ha sempre saputo mantenere uno sguardo obbiettivo e senza rancori, sulle relazioni fra lettoni e russi.
Ma le conseguenze sullo scenario europeo ed in particolare sui baltici, dell’attacco russo in Ucraina, non possono passare sotto silenzio. “Dobbiamo essere pronti, sia fisicamente che moralmente – afferma Skujenieks – a difendere la nostra patria”.
Il poeta ricorda nell’intervista a LNT che la Lettonia non ha mai avuto una vita facile, ed è sbagliato pensare che nuovi conflitti su larga scala non siano più possibili al giorno d’oggi. Quello che possiamo fare è imparare ad adattarsi a vivere anche in una situazione di instabilità geopolitica come quella attuale.
“Ad un certo punto è sembrato che finalmente una volta costituitasi l’Europa, nel continente non ci sarebbero più state nuove guerre. Due guerre mondiali sono nate proprio in Europa. Purtroppo l’attuale situazione in Ucraina è tale da non poter prevederne gli effetti. In ogni caso siamo vicini ad un nuovo grande conflitto, che può estendersi anche al di fuori dell’Ucraina” avverte Skujenieks.
Skujenieks sottolinea che la situazione nella stessa europa è complicata, e questo fattore può essere utilizzato dalla Russia. “L’Europa, come unione collettiva, non si è ancora del tutto compiuta. Sappiamo che è piena di contraddizioni, e di diverse ambizioni.” Ma la partecipazione della Lettonia all’Unione Europea e alla Nato è comunque un fattore da valutare positivamente, anche a costo della perdita di una parte della propria sovranità. “Non si ottiene niente per niente”.
Per quanto riguarda l’atteggiamento della Russia, che continua a gettare benzina sul fuoco sostenendo i separatisti dell’Ucraina orientale e attuando una politica aggressiva. “La Russia – afferma Skujenieks – è di fatto in una situazione senza via d’uscita. Un vicolo cieco in cui si è cacciata lei stessa. La retorica dell’accerchiamento esterno, è una dottrina che è nata ancora prima degli zar. E’ una dottrina che impone un atteggiamento ostile nei confronti degli altri, obbligatoriamente ostile. Fin dai tempi in cui la Russia ha iniziato a conquistare i territori vicini e ad espandersi.”
Skujenieks, nei sette anni in cui ha dovuto lavorare in un campo di deportazione sovietico, in Mordovia, condannato per attività anti sovietica con un processo costruito su prove false, conosce bene il popolo ucraino Nel campo di concentramento ha conosciuto molti altri scrittori ed intellettuali ucraini ed egli stesso è stato uno dei maggiori traduttori di poeti ucraini in lettone, in particolare di Lesja Ukrainka.  “Gli ucrani non sono russi, anche se sono parenti stretti. Ma non sono la stessa cosa, né vogliono esserlo. Il problema è che Putin ormai sembra voglia provare a creare un nuovo impero, a scapito dei paesi vicini.”

Knuts Skujenieks: “Dobbiamo essere pronti, fisicamente e moralmente, a difendere la nostra patria”, Baltica, 23-02-15. 

mercoledì 18 marzo 2015

Usi la marijuana ? Danneggi la tua memoria.

Mentre l’efficacia terapeutica della cannabis per alcune malattie neurodegenerative è in fase di rivalutazione, i risultati che mettono in relazione consumo e performance cognitive sembrano concordare: fumare da giovani riduce la memoria a lungo termine da adulti. Ad affermarlo è uno studio pubblicato dalla rivista Hippocampus ad opera dei ricercatori statunitensi della Northwestern University.

Come spiega il professor John Csernansky, uno degli autori dello studio, «dal nostro studio emerge che la cannabis è in grado di danneggiare selettivamente quelle aree cerebrali deputate alla memoria a lungo termine che utilizziamo ogni giorno per risolvere i problemi più semplici». In particolare il danno riguarda l’ippocampo, una porzione del cervello fondamentale sia per l’orientamento spaziale sia per la memoria. Per arrivare al risultato gli scienziati della Northwestern University hanno sottoposto ad alcuni test cognitivi e a risonanza magnetica un gruppo di ex-forti consumatori di cannabis. Ragazzi che in età scolare hanno fumato almeno una volta al giorno per tre anni. I dati sono stati poi confrontati con quelli di persone che non avevano mai fatto uso di marijuana.

Dalle analisi è emerso che il gruppo di fumatori, a distanza di due anni dopo aver smesso con il consumo di canne, aveva performance cognitive ridotte di quasi il 20% rispetto al secondo gruppo. Non solo, dalle immagini ottenute tramite risonanza sono emerse chiaramente alterazioni strutturali a livelli dell’ippocampo. Un dato, quest’ultimo, che secondo gli autori della ricerca è strettamente correlato alla minor capacità di ricordare.

Inoltre i ricercatori hanno riscontrato che in alcuni casi di schizofrenia l’utilizzo della cannabis ha ridotto le performance cognitive di oltre il 26% rispetto ai pazienti affetti dalla malattia che non hanno mai fumato. Dati importanti da tenere ben presenti se si considera che negli Stati Uniti, dove è stata effettuata l’indagine, 24 stati hanno legalizzato la marijuana per uso medico e 4 per utilizzo “ricreativo”.  


Daniele Banfi, Ti fai le canne? Da grande avrai meno memoria, La Stampa, 16/03/15.

domenica 15 marzo 2015

Debito pubblico e crisi economica.

Il debito pubblico italiano è aumentato nel solo 2014 di 66 miliardi di euro, toccando quota 2.135 miliardi. Nel 2015 il governo prevede che cresca di altri 50 miliardi, con una spesa per interessi di 74 miliardi. Il peso del debito pubblico, pur se ancora sostenibile in termini di liquidità e solvibilità, da anni limita fortemente la crescita.  Nella sua opera Il Capitale nel XXI secolo,Thomas Piketty, dedica un capitolo alla questione del debito pubblico. Per uscire dalla crisi del debito che sta minando le economie del Vecchio Continente, l’economista francese suggerisce nell’ordine tre possibili soluzioni: un’imposta sul capitale, l’inflazione e l’austerità. Avendo come obiettivo l’equitàdistributiva, “il metodo più trasparente, più giusto e più efficace” per abbattere lo stock di debito pubblico è tassare i patrimoni privati, immobiliari e finanziari.
Con un’imposizione straordinaria del 15 per cento delle ricchezzepossedute dalle famiglie si potrebbe azzerare in un colpo solo il debito pubblico, ma anche con aliquote progressive più basse e salvaguardando i piccoli patrimoni (per esempio non tassando l’abitazione di proprietà) si potrebbe ricondurre il debito a livelli fisiologici, affrancando i conti pubblici da oneri eccessivi di spesa per interessi. Una politica fiscale che penalizza i detentori dei capitali non è di facile attuazione per il timore della fuga all’estero dei capitali finanziari e richiede un governo che abbia un ampio consenso popolare.
Anche per il premier greco Alexis Tsipras, nonostante gli annunci, non sarà semplice varare in Grecia una sostanziosa patrimoniale. Il fardello del debito pubblico può essere ridotto anche con l’inflazione. Se i titoli di Stato non sono indicizzati, l’aumento dei prezzi consente di pagare interessi di pari importo nominale, ma di valore reale ridotto. Nel secolo scorso, la riduzione del debito è stata spesso conseguita grazie alla svalutazione monetaria. A parte l’attuale quasi-deflazione, che pone ancora più a rischio la sostenibilità del debito pubblico, un’inflazione oltre il 2 per cento l’anno troverebbe la ferma contrapposizione della Bce, il cui principale obiettivo è proprio la stabilità dei prezzi. Al crescere dell’inflazione, aumenterebbero anche i tassi di interesse , vanificando – almeno in parte  – l’effetto benefico sul debito reale. Un aumento dei prezzi peggiorerebbe, poi, le condizioni di vita dei ceti meno abbienti in misura maggiore di quanto inciderebbe sui più ricchi.
Sempre meglio, comunque, delle politiche di austerità. Il percorso intrapreso dall’Europa per uscire dalla crisi economica, fatto di tagli alla spesa pubblica e vincoli sul deficit, sta deprimendo con effetti negativi anche sul debito pubblico, alimentando un circolo vizioso. L’analisi di Piketty si ferma – come è giusto che sia – alle misure convenzionali di rientro dal debito, non prendendo in considerazione le diverse forme di ristrutturazione del debito. Tra esse spicca la proposta P.A.D.R.E., acronimo di Politically Acceptable Debt Restructuring in the Euro-zone, di Pierre Pâris e Charles Wyplosz. Gli autori ritengono che l’enorme debito pubblico accumulato sia un retaggio di errori politici del passato e che i costi di ristrutturazione devono essere assorbiti con la massima gradualità possibile. Il piano PADRE prevede la costituzione di un’Agenzia internazionale – ma il compito può essere delegato alla stessa Bce – che acquista i titoli di Stato al valore di emissione in misura proporzionale alla quota azionaria posseduta in Bce e li trasforma in obbligazioni perenni a tasso di interesse nullo.
Per finanziare l’operazione, l’Agenzia emette a sua volta (in perdita) obbligazioni a un tasso di mercato, comunque più basso di quello che sopporterebbero i diversi Stati. Questi ultimi provvedono a rimborsare nel tempo le perpetuities attraverso i profitti dasignoraggio e si impegnano a politiche fiscali accorte, pena la perdita immediata del beneficio (clausola sul moral hazard). Nessuno Stato trarrebbe vantaggio a danno di altri e l’onere del debito si scaricherebbe sulle generazioni future, allentando la morsa dell’attuale austerità. Il piano PADRE è neutrale rispetto alla redistribuzione dei patrimoni e nella gerarchia proposta da Piketty può essere collocato tra l’imposta da capitale e l’inflazione.
Un altro strumento ancor meno convenzionale di ristrutturazione del debito è lo scambio forzoso, che equivale a una sorta di imposta patrimoniale applicata, però, ai soli possessori di titoli di Stato. In Italia, ad esempio, sono in circolazione 12 miliardi di Btp trentennali emessi nel 1993 al 9 per cento, che generano una spesa per interessi fino a scadenza di oltre 1 miliardo di euro l’anno. Se si sostituissero tutti i titoli in circolazione con altri che offrono un rendimento del 2 per cento, si risparmierebbero nel 2015 circa 27 miliardi di euro di interessi. Si tratta sicuramente di un’ipotesi fantasiosa, anche per le conseguenze che avrebbe sul sistema del credito, ma ad ogni modo varrebbe molto di più di qualsiasi manovra di bilancio.

giovedì 5 marzo 2015

L'udito dei giovani è a rischio.

Si celebra oggi la Giornata Mondiale dell’udito, l'"International Ear Care Day 2015", per sensibilizzare sulle condizioni spesso sottovalutate di sordità e ipoacusia che, congenite o acquisite, riguardano il 5% della popolazione mondiale, 360 milioni di persone, la metà dei quali sono casi che si sarebbero potuti prevenire.

Il fenomeno, in forte crescita negli anziani a causa dell’invecchiamento della popolazione, con le pesanti ricadute della sordità in termini personali e sociali. Tuttavia, a preoccupare è l’aumento registrato tra le fasce più giovani. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che oltre un miliardo di adolescenti e di giovani siano a rischio di sviluppare una perdita di udito a causa  di un uso non sicuro di cuffie per l’ascolto della musica e per l’esposizione a livelli dannosi di rumore nei luoghi di divertimento e intrattenimento come bar, pub o discoteche. A soffrire di danni permanenti all’udito sono già 43 milioni i giovani di età compresa tra i 12 e i 35 anni.

LE RACCOMANDAZIONI DELL’OMS.  
Eppure, avvertono dall’OMS, per impedire che un passatempo piacevole come l’ascolto della musica diventi pericoloso per la nostra salute è sufficiente adottare delle semplici accortezze. La parola d’ordine è tenere i decibel sotto controllo. Infatti, lettori mp3 e smartphones vengono utilizzati spesso ad un volume molto alto per lunghi periodi di tempo, quando invece non andrebbero superati i 60 minuti al giorno. Ascoltare la musica con le cuffiette ad un volume di 95 decibel anche solo per mezz’ora al giorno significa danneggiare irrimediabilmente l’udito nel giro di un paio d’anni. 

Più alto il volume, più rapida la comparsa del danno e la sua entità. E quindi i tempi di ascolto considerati sicuri variano con i decibel: otto ore a 85 decibel (il rumore nell’abitacolo di un’automobile), 2 ore e mezza a 90dB (metropolitana), 47 minuti a 95dB, un quarto d’ora a 100dB (treno in transito), 4 minuti a 105Db (un lettore mp3 con il volume al massimo), 28 secondi a 115dB (un concerto rock) e nove secondi a 120Db (una sirena). Se i limiti stabiliti per legge sulla rumorosità non vengono rispettati dai gestori dei locali, i consigli sono di mantenersi a distanza dalle casse. Inoltre, se non è possibile evitare l’esposizione al rumore in ambito lavorativo, andrebbe verificato il rispetto dei livelli di esposizione consentiti e andrebbero indossate delle protezioni acustiche, uso peraltro stabilito per legge.

PROTEGGERE L’UDITO.  
«I giovani dovrebbero essere consapevoli che, una volta perduto, l’udito non ritornerà mai più. Adottando delle semplici precauzioni permetterebbe alle persone di continuare a divertirsi senza mettere a rischio il proprio udito» ha detto Etienne Krug il direttore del dipartimento per il Dipartimento per la gestione delle malattie non trasmissibili, della disabilità, la violenza e la prevenzione degli infortuni dell’OMS nel lanciare la campagna  “Make Listening Safe” pensata proprio per attirare l’attenzione sui possibili rischi e le strategie per mantenere in buona salute funzionale il nostro udito.

LA VULNERABILITÀ DEI BAMBINI.  
I più vulnerabili sono i bambini, il cui deficit uditivo può essere molto invalidante anche per le conseguenze sui rapporti sociali e sul carattere del bambino. Nelle classi rumorose, i bambini possono avere delle difficoltà nell’apprendimento della lingua con delle conseguenze sulle prestazioni scolastiche e più in là con gli anni sull’istruzione e l’occupazione. «Vorremmo che si desse maggiore attenzione al problema dell'udito soprattutto nei bambini. Un semplice test eseguito alla nascita permetterebbe di ricorrere a un impianto cocleare, regalando al bambino una vita normale e uno sviluppo corretto», spiega Peter McGrath, che coordina la IAMP, una rete di 73 accademie mondiali di medicina impegnata nella promozione di buone pratiche di salute in tutto il mondo che ha preparato un documento articolato in cinque strategie che andrebbero adottate da parte dei governi, sottoscritto da oltre 40 accademie di medicina in tutto il mondo, inclusa l'Accademia Nazionale dei Lincei e che verrà presentato ai Ministeri della salute dei paesi firmatari.

LE ALTRE CAUSE DELLA SORDITA’  
Le cause dei problemi all’udito sono molte, oltre al rumore, condizioni genetiche, alcune malattie infettive, otiti croniche e anche l'invecchiamento. La grande percentuale di casi di sordità che si potrebbero evitare con la prevenzione suggerisce l’opportunità di organizzare programmi educativi nelle scuole e estendere al grande pubblico degli interventi di comunicazione e di sensibilizzazione. Per l’OMS, inoltre, governi e gestori dei locali hanno il dovere, rispettivamente, di redigere una rigorosa legislazione sul rumore e di rispettarla.   

Nicla Panciera, Decibel assordanti udito dei giovani a rischio, "La Stampa", 3-03-15.