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mercoledì 29 aprile 2015

Una pagina dimenticata della Resistenza.

 Il partigiano Neri.
Nel primo pomeriggio di domenica 29 aprile 1945, il musone di una Fiat 1500 sgommava per i tornanti intorno al lago di Como. Era partita dalla zona nord del lago, da un piccolo centro che in quei giorni di fine aprile era diventato stranamente nevralgico, Dongo. Dentro la 1500 c’erano 6 valigie di cuoio giallo e al volante Carletto Maderna, l’“autista” dei partigiani nell’alto comasco detto Carletto “Scassamacchine”. È suo un memoriale vergato esattamente un anno dopo quella domenica mattina: «Mi hanno caricato sulla Fiat 1500 cinque o sei valigie in cuoio giallo. Nei locali del palazzo del comune di Dongo “Gianna” mi aveva detto che tre contenevano parecchi soldi italiani ed esteri. Seppi dopo che erano circa 400 milioni. Sono partito alle 13 circa insieme a “Gianna” e a “Francesco” e arrivammo a Como davanti alla Casa del popolo alle 14.30 circa. Salita la “Gianna” alla sede del partito comunista, scesero delle persone e assieme a me e a Francesco portammo (sic) le valigie alla sede stessa e, come ho visto io, sono state chiuse in una cassaforte sempre nella sede del Pci di Como».

L’ORO DI DONGO. La “Gianna” protagonista di questo episodio era una staffetta partigiana, la milanese Giuseppina Tuissi, che venne uccisa da un sicario prezzolato, probabilmente del Pci, la sera del 23 giugno 1945 e poi scaraventata da una scogliera, il Pizzo di Cernobbio, dentro il lago. I 400 milioni di lire dell’epoca nelle valigie sarebbero una piccola parte dell’oro di Dongo: 70 anni dopo quei fatti, lo storico Roberto Festorazzi, con materiali inediti, tra cui testimonianze dirette o memoriali recuperati dopo più di mezzo secolo, ricostruisce una pagina oscura dei giorni della Liberazione, nel libro da poco uscito Mussolini 1945: l’epilogo (ed. in edibus).


LE LETTERE DI CHURCHILL. Accompagnate da una documentata ricostruzione, sono molte le vicende di quei giorni ricostruite da Festorazzi per la prima volta. Al centro del libro resta ovviamente la fine di Benito Mussolini, e viene esplorata anche una pista inedita che contestualizzerebbe il motivo della rapida esecuzione del duce, collegata ad un carteggio segreto tra Mussolini e Winston Churchill che in quei primi frenetici giorni del dopoguerra per gli Alleati andava fatto sparire.
In questa indagine storica, Festorazzi propone per la prima volta alcune testimonianze dirette dei protagonisti dell’esecuzione, anche di coloro che all’epoca lavoravano in seno o vicini al Cvl, il Comitato volontari della libertà che fu il braccio armato della resistenza. Attraverso queste voci viene illustrata la tesi che l’allora comandante del Cvl, Raffaele Cadorna (figlio del generale Luigi, capo delle forze armate nella Grande guerra) abbia avuto un ruolo di primo piano nella decisione di uccidere Mussolini, malgrado negli anni successivi abbia poi cercato di sminuire le sue responsabilità.

IL PARTIGIANO NERI. Festorazzi racconta anche il tragico clima da aprile a giugno 1945, quando si consumarono molte esecuzioni di civili qualsiasi o all’interno delle stesse brigate partigiane. “Gianna” è una delle vittime di questo clima insieme al suo amante, nonché comandante partigiano di cui era stata la “staffetta”, “Neri”. Una vicenda strettamente collegata all’oro di Dongo, il misterioso tesoro della Repubblica sociale italiana, che secondo Festorazzi ammontava a circa 1 miliardo di lire dell’epoca e venne in parte depredato dalla popolazione dei paesi del lago di Como, perché «i gerarchi stessi affidarono borse e valigie colme di valori ai partigiani e ai loro simpatizzanti, nella speranza di poterseli in qualche modo ingraziare». Inoltre «parte considerevole del tesoro, almeno la metà della sua entità complessiva, venne incamerata dal Partito comunista».

L’autore ipotizza che sarebbe stato proprio per il loro tentativo di impedire che i compagni di partito si macchiassero di questo furto silenzioso che Gianna e Neri forse sarebbero stati fatti fuori dai loro stessi compagni. Neri, al secolo Luigi Canali, era l’affascinante e carismatico capo partigiano del reparto comasco delle Brigate Garibaldi: cresciuto in una famiglia marxista e cattolica, dopo aver preso parte alla campagna di Russia, Canali maturò la scelta di impegnarsi attivamente nella resistenza per contrastare il fascismo.
Dai documenti raccolti, Festorazzi ricostruisce come Neri avesse in quell’aprile 1945 il sostegno e l’apprezzamento incondizionato della popolazione comasca, che riconosceva in lui il leade dell’antifascimo, al punto che quasi certamente fece parte del commando che uccise Mussolini e la Petacci. Tuttavia Canali forse sapeva qualcosa sulla fine del dittatore, che non aveva avallato. Neri sparì misteriosamente la notte del 7 maggio ’45: secondo l’autore fu fatto uccidere dai compagni partigiani, che volevano impedirgli di rivelare qualcosa sulla fine di Mussolini. La sua compagna e staffetta Gianna, all’epoca nemmeno 22enne, trascorse il mese di maggio e di giugno cercando di indagare insieme alla madre di Neri e ad un giornalista del Corriere sulla fine di Canali: ma anche lei, testimone scomoda, sarebbe stata eliminata.


Chiara Rizzo, La resistenza, l’oro di Dongo e una pagina di storia dimenticata, "Tempi", 24-04-15. 

  

lunedì 27 aprile 2015

Vuoi essere assunto ? Occhio a queste virtù.

Secondo una ricerca effettuata dalla Business School ESCP Europe che ha coinvolto 100 manager di azienda, le caratteristiche richieste dai datori di lavoro al momento di assumere un nuovo lavoratore stanno cambiando: le aziende chiedono un approccio più pratico al lavoro. Per questo per essere assunti sono necessarie 3 particolari qualità. Ecco quali sono secondo quanto riportato da Skuola.net.  

#3 CAMBIARE? NON E' UN PROBLEMA
La capacità di adattarsi ai cambiamenti è una qualità che fa riferimento alla metodologia di lavoro: ben 1 su 4 dei manager d'azienda intervistati considerano questa la più importante per il settore. E' addirittura più importante dell'orientamento ai risultati, cioè la capacità di centrare gli obiettivi lavorativi, e della capacità di avere a che fare con i clienti. Anche la ricerca e la gestione delle informazioni non è ritenuta di pari rilevanza.

#2 L'UNIONE FA LA FORZA
Il candidato ideale deve avere qualità di leadership? Ma quando mai! Ormai non si lavora più da soli e saper comunicare e lavorare tra più persone è considerato un punto di forza per chi deve essere assunto. Per questo il teamworking (39%) e la comunicazione (36%) sono considerate le qualità più importanti per quanto riguarda le soft skills sociali. Leadership, networking ed adattabilità culturale chiudono la classifica rispettivamente al 4%, 4% e 0%.

#1 IMPARO TUTTO
La capacità di apprendimento (31%) e la creatività (22%) sono le qualità personali più richieste ai giovani laureati che cercano un posto di lavoro. Se il mondo è in continuo cambiamento, è indispensabile per un azienda assumere persone che non smettono mai di imparare, e riescono a cogliere sempre nuove opportunità e intuire innovazioni. A sorpresa, l'etica professionale (4%) e la tolleranza allo stress (4%) non compaiono tra le caratteristiche personali più richieste. 

domenica 12 aprile 2015

Previsioni sul clima ? Per Scott Armstrong non sono attendibili.


Professor J. Scott Armstrong, lei insegna all’università della Pennsylvania: mi può dire cos’è un «previsore»?  
«È una persona che stabilisce cosa è probabile che accada in una determinata situazione, e come sarà. Per fornire previsioni utili i “previsori” devono usare procedure basate su prove di efficacia. Questo processo è riassunto nei 139 principi del mio libro, “Principles of Forecasting”. La conoscenza nasce dalle recensioni di 40 esperti di previsioni in vari campi in decenni di ricerca. Dal 2000 i principi sono disponibili su forprin.com”». 

Il meccanismo della previsione funziona indipendentemente dal problema a cui viene applicato?  
«Sì, in ogni situazione. Tuttavia molti sostengono che non vale per il loro caso». 

Le previsioni funzionano meglio in alcuni settori piuttosto che in altri?  
«Quelle del tempo sono un settore in cui se ne può fare un buon uso. Ad esempio, quando le previsioni del tempo danno per domani il 60% di possibilità di pioggia, 60 volte su 100 piove. Per contro i manager spesso usano le previsioni come strumenti motivazionali e tuttavia non seguono principi scientifici». 

Il riscaldamento globale è anche un problema di previsioni?  
«Il problema non è cos’è accaduto nel passato. Il punto è cosa accadrà al clima nel futuro. I governi e le maggiori industrie discutono di politiche costose per fermare gli effetti del riscaldamento globale causato dall’uomo. E quindi sì: questo è innanzitutto, e soprattutto, un problema di previsioni». 

Quanto sono affidabili le previsioni sul riscaldamento?  
«Dal punto di vista scientifico non hanno nulla di valido. L’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (il gruppo di esperti dell’Onu), ha concluso che i mutamenti della temperatura media annuale del Pianeta non possono essere previsti, perché il clima è troppo complesso. Nondimeno si affidano a modelli elaborati al computer per esemplificare le loro supposizioni sui meccanismi climatici. Definiscono “scenari” il risultato di questi modelli e in effetti quelle dell’Ipcc sono narrazioni illustrate con l’infografica di ciò che avverrebbe, se le loro supposizioni si rivelassero corrette. Sfortunatamente, i governi trattano questi scenari come previsioni e gli scenari portano a previsioni fuorvianti. In aggiunta, le supposizioni dell’Ipcc mancano di supporto scientifico, come è stato illustrato nei tre volumi del “Climate Change Reconsidered”. Gli allarmisti del riscaldamento globale affermano che quasi tutti gli scienziati concordano sui rischi di un innalzamento delle temperature. Tuttavia citare l’opinione degli scienziati non è un sistema scientifico per fare previsioni. E l’affermazione, peraltro, non risponde al vero». 

Allora qual è la verità sull’innalzamento delle temperature?  
«Kesten Green, Willie Soon e io siamo isolati nelle nostre posizioni. Premesso l’alto livello di incertezza sull’effetto delle emissioni di ossido di carbonio a causa dell’attività umana, nel clima vediamo solo cambiamenti naturali. Inoltre, non abbiamo previsioni a lunga scadenza, né di raffreddamento né di riscaldamento. I nostri test sull’accuratezza delle previsioni nel periodo dal 1851 al 1975 hanno accertato che, per 91 anni su 100, gli errori nelle temperature rilevate dagli scenari dell’Ipcc come “conformi” erano 12 volte maggiori di quelli del nostro modello. Nel 2007, nel tentativo di incoraggiare i meteorologi a provare l’accuratezza dei loro pronostici, avevo proposto una scommessa all’ex vice presidente degli Usa Al Gore: avevo suggerito che entrambi puntassimo 10 mila dollari da destinare in beneficenza. La sfida consisteva nel prevedere la temperatura media annua globale per i prossimi 10 anni e io scommettevo che non ci sarebbero state variazioni. Ma Gore rifiutò la scommessa. Il sito Theclimatebet.com traccia i dati sulle temperature per mostrare come sarebbe andata se Gore avesse voluto mettere in gioco il modello dell’Ipcc contro il mio». 

Perché il dibattito sul cambiamento climatico é così aspro?  
«Gli avvocati dell’ipotesi del riscaldamento globale non vogliono affrontarla come soggetto scientifico. Rifiutano di confrontarsi con ipotesi alternative o di citare la letteratura che non concorda con la loro tesi e ribattono che gli “scettici” non sono veri scienziati, tentando di impedire che presentino le loro idee ai media». 

Nel covo dei pirati informatici.

Il viaggio in treno da Bucarest verso la regione dei Carpazi meridionali dura circa sei ore. Il paesaggio è dapprima piatto, simile alle terre basse della Pianura Padana, ma dopo qualche ora si comincia a respirare un’aria premontana. I pendolari salgono e scendono da piccole stazioni prive di pensiline. Osservo carri agricoli trainati da cavalli, covili d’erba, capannoni diroccati e impianti industriali in disuso. Non ci si deve stupire: la Romania è uno dei Paesi più poveri dell’Unione europea, dove il salario medio non supera i 423 euro al mese e i trattori sono una rarità (uno per ogni 54 ettari). L’ultima stazione del mio viaggio è Râmnicu Vâlcea. Nel 1966 il regime comunista vi fece costruire un gigantesco impianto chimico. Ma la OltChim ha dichiarato bancarotta nel 2012 e i turisti stranieri preferiscono andare alla ricerca del fantomatico conte Dracula in Transilvania. Eppure questa città è miracolosamente sfuggita alla povertà del Sud-Ovest romeno grazie ad un’industria molto particolare: il cybercrime.  

Comincia l’avventura  
Dalla metà degli Anni Novanta, Râmnicu Vâlcea si è specializzata in frodi su Internet. All’inizio le vittime venivano trovate su Ebay. Chi vinceva l’asta pagava prima di ricevere la merce oppure, per gli acquisti più sostanziali, doveva far fronte a spese doganali o di spedizione fittizie. Ben presto, i consumatori occidentali hanno cominciato a diffidare delle offerte provenienti dall’Est Europa. Così le truffe online sono diventate più sofisticate. I venditori sembrano risiedere negli Stati Uniti o in Inghilterra, e i pagamenti vengono indirizzati verso banche rispettabili. Ogni dettaglio è credibile. Il capo della sezione informatica della polizia mi mostra un sito Internet all’apparenza impeccabile, che affitta appartamenti e ville per le vacanze e contiene anche una sezione per le recensioni. Quando il cliente contatta il padrone di casa, questi è in grado di mostrare copie di documenti che attestano la proprietà dell’immobile ed è anche disposto a descrivere al telefono le amenità del luogo di villeggiatura. Per aumentare la propria credibilità, l’agenzia permette al cliente di pagare attraverso un sito terzo di garanzia, pure questo falso. Persino i numeri di fax usati nella corrispondenza ufficiale non corrispondono ad alcuna linea telefonica terrestre: un programma converte i fax in arrivo in email. La mente di questa frode si nasconde in un appartamento di Râmnicu Vâlcea. 

Una volta sceso dal treno, mi avvio verso il centro. Caffè, bistrò e ristoranti alla moda sono dovunque in questa cittadina di 92.000 abitanti. Mi fermo all’Accademia del Gusto, un ottimo pub specializzato in cibo italiano. Il mio albergo, costruito tre anni fa e costato tre milioni e mezzo di euro, vanta uno chef spagnolo e stanze comode e spaziose, a prezzi modici. Si trova proprio di fronte alla decrepita stazione di polizia. I segni della ricchezza privata sono evidenti: i due centri commerciali sulla piazza principale hanno cinque piani di negozi che vendono vestiti griffati, elettrodomestici, computer, accessori sportivi e gioielli, oltre ad ospitare un cinema, ristoranti, bar e pasticcerie. Una concessionaria della Mercedes-Benz è a pochi passi di distanza.  

Il trasferimento dei soldi  
In città si trovano anche decine di agenzie specializzate nel trasferimento internazionale di denaro in contanti, come Western Union e MoneyGram. È questo lo strumento più diffuso per far arrivare i proventi delle truffe informatiche a Râmnicu Vâlcea. Vi sono alcune accortezze da seguire: la cifra non deve superare i 5.000 euro e non si può usare sempre la stessa filiale per riscuotere il denaro. Non stupisce quindi che vi siano 64 sportelli di Western Union a Râmnicu Vâlcea, uno per ogni 1.446 persone. Questa è la concentrazione maggiore dell’intero paese: ad esempio a Bucarest il rapporto è di una filiale per ogni 8.118 persone (a Novara, una città più popolosa di Râmnicu Vâlcea, se ne possono trovare solo 24, una ogni 4.375 abitanti). Mi fermo circa un’ora a osservare la fila allo sportello di Western Union al piano terra del centro commerciale: giovani, donne, ragazzini e anziani ritirano denaro, chiacchierano, si salutano e si dileguano nei meandri di questa improbabile cattedrale del consumismo. A pochi metri di distanza c’è la filiale di MoneyGram.  

Un piccolo esercito  
Secondo i magistrati di Râmnicu Vâlcea almeno mille persone lavorano a tempo pieno alle frodi informatiche. Decine di gruppi sono organizzati sulla base di una ferrea divisione del lavoro: giovanissimi appassionati di computer vengono reclutati da menti criminali in grado di usare la violenza. I guadagni sono astronomici: una gang arrestata un anno fa aveva ricavato in poco tempo un milione e 400 mila euro. Queste mafie virtuali, sempre descritte come liquide e anonime, beneficiano di una rete di contatti e di protezioni molto solide e terrestri. Chi preleva il denaro nelle banche straniere e lo invia attraverso Western Union oppure lo trasporta in macchina o in aereo, conosce i capi locali, mi conferma il mio informatore. Incontrarsi di persona è una delle strategie migliori per cementare la fiducia reciproca, negli affari legali come in quelli illegali. E poi c’è la corruzione. Il vice questore di Râmnicu Vâlcea, Gabriel Popa, per esempio, è stato arrestato quattro mesi fa per aver rivelato informazioni riservate ad una gang di criminali informatici, e una mattina di marzo sono stato svegliato dalle sirene e da un generale trambusto: di fronte alla mia finestra veniva arrestato un omonimo del vice questore, Alexander Popa, un poliziotto anch’egli accusato di aver passato informazioni riservate, in questo caso ad una gang guidata da Nicolae Vasile che ha sottratto di recente 200.000 euro a circa 600 vittime inglesi. La pena per i due funzionari? Trenta giorni agli arresti domiciliari.  

La corruzione  
Anche i politici sono coinvolti. Il senatore socialista eletto a Râmnicu Vâlcea, Laurentiu Coca, è stato intercettato mentre era al telefono con Mihai Obreja, detto Labus, il boss di una pericolosa gang locale che, oltre ai crimini informatici, si dedica all’usura e all’estorsione. La conversazione tra i due non era delle più amichevoli: «Restituisci i soldi che ti sei venuto a prendere a casa mia, o sei fottuto», dice Obreja al senatore. In un’altra intercettazione, un membro del clan minaccia di tagliare le mani ad un cliente moroso. A riprova che la corruzione è diffusa, il sindaco eletto nel 2012 è stato condannato in via definitiva a quattro anni per una storia di tangenti. Chi denuncia i legami tra potere e criminalità organizzata viene minacciato e aggredito, come è successo a Romeo Popescu, proprietario e direttore del quotidiano locale Vocea Valcii.  

Mentre mi accomodo in uno dei café frequentati da queste gang e le osservo vantarsi delle loro gesta, penso che il modernissimo cybercrime prospera grazie a reti sociali diffuse, in luoghi dove le istituzioni locali non hanno la forza di combattere la corruzione. Come la campagna rumena punteggiata da carri agricoli e covoni di fieno, anche questa criminalità ha un sapore antico.  

F. Varese, Romania, nella tana degli hacker che truffano il mondo, "La Stampa", 12-04-15.

Chi ha paura degli Armeni ?

Esattamente un secolo fa, nel 1915, cominciavano nell’impero ottomano i massacri e le deportazioni della popolazione armena, che in tre anni avrebbero provocato 1,3 milioni di vittime, secondo gli armeni, ma anche secondo la generalità degli storici, tra 250.000 e 500.000 secondo le autorità turche. Il Papa lo ha definito oggi il primo genocidio moderno. 

Nella capitale dell’Armenia, Erevan, e in altri Paesi il genocidio viene ricordato ogni anno il 24 aprile, anniversario dell’arresto di migliaia di leader della comunità sospettati di sentimenti ostili nei confronti del governo di Costantinopoli, dominato dal partito ultranazionalista dei Giovani Turchi, che volevano creare uno stato nazionale turco. 

Indeboliti dalla sconfitta nella guerra dei Balcani, nel febbraio 1914 gli ottomani, su pressione dei paesi occidentali, si impegnarono ad avviare riforme per tutelare le minoranze etniche e religiose. Ma, nell’ottobre dello stesso anno, entrarono nella prima guerra mondiale, a fianco della Germania e dell’impero austro-ungarico. Poche settimane dopo gli arresti di massa dei leader armeni, nel maggio 1915 una legge speciale autorizzò le deportazioni «per motivi di sicurezza interna» di tutti i «gruppi sospetti». La popolazione armena di Anatolia e di Cilicia, additata come «il nemico interno», fu deportata verso i deserti della Mesopotamia. Durante l’esodo forzato molti morirono di stenti e malattie o furono uccisi da guerrieri curdi al servizio degli ottomani. Altri morirono nei campi dove furono confinati. Altri riuscirono a fuggire in Occidente. L’operazione di “pulizia etnica” aveva un doppio obiettivo: occupare le terre appartenenti agli armeni, situate tra la Turchia e il Caucaso, e togliere alla minoranza cristiana qualsiasi illusione su eventuali riforme. Nel 1920, dopo la dura sconfitta nella prima guerra mondiale, l’impero ottomano fu smantellato. Nel maggio 1918 era stato istituito uno Stato armeno, inglobato nell’Unione sovietica. 

La Turchia non riconosce il termine di «genocidio», ma ammette che furono commessi massacri e che molti armeni persero la vita durante le deportazioni. Secondo Ankara si trattò di repressione contro una popolazione che collaborava con la Russia zarista durante la prima guerra mondiale. Il genocidio armeno fu riconosciuto, nel 1985, dalla sottocommissione dei diritti umani dell’Onu, e nel 1987 dal Parlamento europeo. I Paesi che riconoscono il genocidio sono 20, tra cui l’Italia, dopo una risoluzione votata dalla Camera nel novembre 2000. Il medesimo passo è stato fatto nel 2001 dalla Francia, dove vive la comunità armena più numerosa (350.000 persone). E poi anche, oltre all’Armenia, Russia, Svizzera, Finlandia, Svezia, Slovacchia, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Lituania, Cipro, Canada, Venezuela, Argentina, Cile, Uruguay, Vaticano, Libano. Oggi nel mondo vivono 8 milioni e mezzo di armeni, soprattutto in Russia, Stati Uniti, Canada, Medio Oriente e Francia. 

L’anno scorso, alla vigilia del 99mo anniversario del genocidio, il presidente turco (allora premier) Recep Tayyip Erdogan aveva fatto le condoglianze ai nipoti di coloro erano stati sterminati. Una mossa interpretata da alcuni analisti come un tentativo di evitare la forte condanna della comunità internazionale per la linea negazionista di Ankara. Condoglianze tuttavia accolte con freddezza dalla comunità armena, tanto che il presidente Serzh Sarksyan, nel messaggio commemorativo del genocidio, non aveva fatto nemmeno un accenno alle parole di Erdogan. Charles Aznavour, artista simbolo della diaspora armena, aveva parlato di un gesto insufficiente 

Viaggio della memoria 2015: un'esperienza unica.

di Frederyc Montesano 

Prima di partire per la Polonia e visitare i campi di concentramento, ho letto diversi libri sull’argomento e sulla seconda guerra mondiale.  

Ho potuto vedere Primo Levi, svolgere il suo esame di chimica vicino la fabbrica di Buma, dove gli era stata strappata la fede in Dio e torturata l’anima per mesi e mesi
Ho potuto sentire (sempre tramite questi libri) il padre di Elie gridare moribondo il nome di suo figlio e questi non poteva far altro che guardare mentre un ufficiale lo colpiva a morte.
Tutto questo sicuramente mi ha aiutato a comprendere almeno una minima parte di quella che doveva essere la “vita” nei campi.

Appena arrivati a Cracovia abbiamo visitato la Sinagoga e il quartiere Casimiro (ebraico). La sinagoga è stata ricavata da una vecchia stalla in disuso, ne avevo visitata una quando ero piccolo e non ne ricordo molto, visitarla è stato…  quasi incoraggiante, per il fatto che alla fine il bene abbia trionfato dopo quegli anni di nera follia. La sua porta alta e importante, l’aria solenne, il nome di Dio scritto in ebraico a primeggiare su ogni cosa, lasciavano sperare nella quiete dopo il passaggio della tempesta. Cose sconcertanti si possono vedere ancora oggi per le  vie del posto. Il muro fatto dai tedeschi per dividere il quartiere è stato realizzato imitando la forma tradizionale delle lapidi, un altro caso di gratuita crudeltà da parte dei nazisti.  Nel quartiere è stato girato il famoso film “The Schindlers’s list”.  Questo è stato reso possibile anche dal fatto che l’urbanistica delle case è rimasta quella di un tempo, oltre al fatto della fedeltà di quei luoghi nel trattare l’argomento. Abbiamo potuto vedere nella Piazza centrale, un memoriale dove al tempo della guerra c’era una famosa farmacia in cui il farmacista nei tempi della deportazione offriva rifugio agli ebrei, per poi farli nascondere tra le famiglie di contadini.                            

In questa farmacia è passato anche il famoso regista Szpilman Wladyslaw, famosissimo per il suo film, “Il pianista”, inoltre, la piazza è tutta adornata con statue raffiguranti delle sedie,  rendendo omaggio a dei bambini ritratti in una vecchia foto, nell’atto di portare delle seggiole scolastiche fuori della scuola, poiché non potevano più studiare assieme agli altri bambini a causa delle questioni razziali. Dopo aver visto e ascoltato la guida che spiegava queste cose siamo tornati in albergo.

La notte antecedente la mia visita ai campi alloggiavo in un albergo di Cracovia e nel sonno fui vittima di in un incubo agghiacciante, da cui mi svegliai fradicio di sudore e che mi lasciò attonito per buona parte della mattinata.
Cercherò di riassumerlo brevemente: mi trovavo a correre scalzo e a petto nudo su di una discesa non lontana da casa mia. Il peggio sta nel fatto che, sull’asfalto, per tutta la strada c’era come un tappeto di vetri acuminati e io ci correvo sopra! arrivato ad un certo punto di questa discesa mi sono dovuto fermare, perché avevo le piante dei piedi completamente consumate e sanguinolente, ma nel sogno non davo molto peso a questo quanto al fatto di non poter proseguire la corsa.

Sveglia alle 5: 40. 

In piedi alle 6 :30 e, dopo una doccia veloce, colazione con i miei compagni di camera, Jei e Gianluca; poi tutti salimmo sul pullman, eravamo più di 400 persone organizzate su diversi pullman. Ricordo il silenzio dei pensieri delle persone, che aumentava tanto più ci avvicinavamo col mezzo a Birkenau, dove solo settant’anni prima furono assassinate più di un milione di persone. La sola vista di quell’edificio, si presentò in me cosi scomoda che sentii da subito il desiderio di voltare lo sguardo altrove e correre via lontano da quel mostro.

All’interno del campo, una volta passati con la guida sotto l’ arco d’ingresso da cui si levava non troppo alta una specie di guardiola piena di finestre, ritrovai un po’ di pace, forse per via della natura intorno, degli alberi, non so, forse mi ero talmente preparato al peggio che fui rincuorato già dal fatto d’essere ancora vivo.

Cercherò di ripetere con la massima fedeltà i racconti dei testimoni che ci hanno accompagnati in questa sorta di inferno che è stato Auschwitz .
I loro nomi sono: Sami Modiano, Piero Terracina e due sorelle, Tatiana e Andra Bucci.
Poi c’era anche la moglie di un altro sopravvissuto alla Shoah  e morto di recente, di cui però, spero mi perdoni, non ricordo il nome.
Questi uomini e donne, sopravvissuti di ieri, sono stati per noi in quel giorno come degli eroi, per il coraggio che hanno dimostrato nel raccontare alcuni episodi terrificanti, che farebbero asciugare la lingua persino all’oratore più preparato.

Ricordo la testimonianza del viaggio del sign. Modiano, che era stato deportato da Rodi, quando la guerra stava ormai per finire. I tedeschi all’epoca facevano, una propaganda fuorviante dei campi di concentramento, ovvero li presentavano come dei posti dove si andava per lavorare e dove i bambini potevano giocare insieme e cose del genere. Sami Modiano aveva tredici anni quando fu caricato su un vagone per il bestiame, ha detto che da come vennero trattati in quell’eterno viaggio da Rodi sino alla Polonia, capì ben presto che non ci si poteva aspettare nulla di buono neanche all’arrivo. Venivano trattati  peggio che animali, erano moltissimi su quel vagone, ora non ricordo i numeri, ma forse è meglio cosi, spesso quando si parla di numeri ci si dimentica delle persone dietro di essi. Gli venivano dati quattro secchi d’acqua al giorno ed un bidone vuoto, per vagone,  i convogli venivano lasciati per ore sotto il sole cocente della calda stagione. Molti morirono di stenti durante il viaggio, altri arrivarono ad Auschwitz già privi di dignità.

Dignità, la prima veste dell’anima. Da questa parola, dignità, mi allaccio ad un’altra testimonianza, stavolta del sign. Terracina:
- Fummo  presi in casa mentre festeggiavamo la pasqua ebraica, vennero in casa alcune S.S. con le armi spianate, ci diedero venti minuti per fare i bagagli, specificarono di prendere anche gli oggetti di valore perché nel luogo dove andavamo ci sarebbero sicuramente serviti.  Ci portarono al carcere di Regina Coeli, immaginate per delle persone cosi innocenti come potevano essere questi, padre e figlio, presi dal loro ambiente famigliare e trascinati in galera.
- Mi fecero entrare per la schedatura; la guardia fascista che avevo davanti mi faceva domande come l’età, la razza, colore degli occhi e via discorrendo, poi mi fecero le foto, per ultima cosa mi disse di mettere il dito su di un tampone intriso d’inchiostro e di rilasciare la mia impronta sulla scheda, indicandomi il punto preciso. Rimasi immobile come attonito, lui senza dar troppo peso a quella che poteva essere una mia risposta di disappunto, mi prese il dito e fece per me quel gesto che a me riusciva cosi difficile perché sapevo che quel gesto, quell’inchiostro, divideva le persone “normali” dai criminali. Uscii da quella stanza sconvolto, asciugandomi le lacrime. Mio padre se ne accorse e mi disse che qualunque cosa sarebbe successa di lì in avanti avrei dovuto conservare sempre la dignità.
Ma come si può conservare la propria dignità quando giunto il tuo turno dopo la fila per il rancio, ti ritrovi a guardare negli occhi il tuo carnefice sperando dentro di te che raschi un poco il fondo della pentola col mestolo in modo da poter mangiare qualcosa di più sostanzioso .

Le sorelle Bucci hanno raccontato di essere sopravvissute, perché furono scambiate per delle gemelle, a quei tempi c’era un dottore nazista, Josef Mengele  che ne era ossessionato e adoperava questi malcapitati peri suoi esperimenti, una aveva 6 Annie l’altra solo 4;  sono state separate dalla madre appena arrivate al campo. I loro ricordi vista la giovane età forse fortunatamente per loro sono sbiaditi e frammentati una cosa che hanno ricordato è che la sera giocavano con i cadaveri, che immagine terribile è questa, due bambine chine vicino ad un morto senza paura.
Lì si viveva la morte ogni minuto

Il museo di Auschwitz è scioccante, si incentra tutto sulla quantità di oggetti personali dei deportati: valige, occhiali, scarpe, migliaia e migliaia di pezzi a ricordare di quanto l’umanità è stata in grado di mancare a se stessa . Non potrò mai dimenticare la montagna di capelli, in quella sala sembrava di non essere più in questo mondo poiché cose di un mondo altro ci venivano mostrate in quel momento, tra noi occhi lucidi e sguardi attoniti, e quasi la voglia di non essere presenti li, in quell’istante.

Il giorno seguente abbiamo visitato la città di Cracovia e tra chiese e monumenti abbiamo visitato il museo dove è custodito un quadro di Leonardo Da Vinci,“La dama con l’ermellino”, vedendolo ho provato un’emozione… una di quelle cose che non si riescono a descrivere, lo dirò come forse lo direbbe un bambino: dopo tante cose brutte ho visto una cosa bella. Questo può sembrare un pensiero quasi banale, ma vi assicuro che vedere tanta bellezza e amore  in mezzo metro quadrato in rapporto alla smisurata dimensione dei campi di concentramento, mi ha lasciato nel cuore un immenso sentimento di speranza verso l’uomo. Perché quest’ultimo  purtroppo avvolte scende nei meandri dell’odio e della vergogna, ma è capace anche di innalzarsi alla magnificenza divina che ho ritrovato in quel quadro.

La spiegazione che ho saputo darmi rispetto all’esistenza di tutto questo odio, che ha  causato  la morte di tante persone è che tutto ciò che esiste merita di esserci per  il fatto stesso  che c’è altrimenti non esisterebbe. Tuttavia il mio cuore non contento cerca di dare lui una risposta e credo di poterla interpretare in questo modo. Auschwitz serve a metterci in guardia verso ciò che è stato perché non si ripeta, l’insegnamento che ne ho tratto è che bisogna fare attenzione alle nostre idee perché tutto è partito da l’idea di una persona frustrata che si è identificata in quell’idea e ne ha fatto la sua crociata.       

Auschwitz ci obbliga a guardarci dentro e vedere quella parte di noi che non conosciamo, quella che dice sì davanti ad un’autorità anche non credendo a quel sì. Questo spesso lo facciamo con cose di poco conto ma potrebbe capitare che  quel sì, passando come innocuo, provochi danno a qualcuno, questo spesso accade negli ambienti malavitosi, nella corruzione ed è ciò che è accaduto nella seconda guerra mondiale. L’obiezione di coscienza: questo è l’insegnamento che Auschwitz mi ha dato.

Qui  le foto che ho scattato durante il viaggio.

giovedì 9 aprile 2015

Leopardi rovinato dalla Chiesa ?

Nemmeno a noi Il Giovane favoloso di Mario Martone era piaciuto. Sebbene fosse stato applaudito dalla critica nostrana, il film sulla vita di Giacomo Leopardi anche a noi era parso, piuttosto, il ritratto di un paguro piagnucoloso. Un lettore poi, che più di noi aveva una certa dimestichezza con l’arte cinematografica, ci aveva inviato una recensione in cui metteva in forte dubbio che si trattasse di un capolavoro (Un povero sfigato rattrappito in fissa per il sesso. E meno male che “Il giovane favoloso” doveva restituirci un Leopardi non scolastico). Se poi aggiungete il fatto che il regista aveva presentato il poeta di Recanati come un precursore di Kurt Cobain, «un ribelle», bè, ecco, ce ne era a sufficienza per classificare il film come un’operazione di bassa lega ideologica, più che altro intenta ad appiccicare addosso all’autore de L’infinito il vestito dell’anticlericale ante litteram.

COLPA DEI CATTOLICI. Oggi, poi, sul Corriere della sera, Ernesto Galli della Loggia sbeffeggia Martone che, in un’intervista a Le Monde, in occasione dell’uscita del film in Francia, dichiara che la ribellione di Leopardi è incompresa in Italia a causa del pregiudizio religioso: «Per un Paese cattolico come il nostro riconoscere che il nostro più grande poeta era un ateo non va bene». «Leopardi – scrive Galli della Loggia -, secondo Martone, rientrerebbe nella “parte rimossa dell’Ottocento”. Il fatto è, ahimè, che “contrariamente ai francesi che conoscono bene le contraddizioni della Rivoluzione francese, gli italiani invece hanno una visione unilaterale della loro storia. Il che testimonia la nostra profonda incapacità di diventare maturi”».

HAI PRESENTE DE SANCTIS? Già così ci sarebbe da ridere. Ora, va bene che Martone possa non avere letto i libri del cattolicissimo Giulio Augusto Levi su Leopardi, ma come nota giustamente l’editorialista del Corriere, affermare una cosa del genere è una castroneria sesquipedale: «È a questo punto che uno si chiede: ma a questo Martone la maturità chi gliel’ha data? Che studi ha fatto? Di più: dove ha vissuto? Visione unilaterale della nostra storia? Ma ha mai sentito parlare di Croce, Gramsci, Salvemini, Chabod, De Felice, per dirne qualcuno? Ha mai letto le pagine che ha dedicato a Leopardi tal Francesco De Sanctis (per sua informazione: un noto italianista dell’Ottocento di qualche influenza, e non proprio amicissimo dei preti)?».

mercoledì 8 aprile 2015

Garanzia Giovani. Ennesimo flop ?

La notizia sembra davvero positiva, e l’ha comunicata venerdì il ministero del Lavoro: dopo tanti mesi di delusioni, finalmente il programma Garanzia Giovani comincia a carburare, con 491.806 giovani registrati, 244.425 presi in carico, e 65.758 cui è stato proposto un lavoro, uno stage, o una attività di formazione. «Un aumento - si legge - del 75,8% sull’ultimo mese». Sembrerebbe una cosa buona. Sembrerebbe: perché a ben vedere i numeri, in realtà, «Garanzia Giovani» si candida a conquistare il trofeo del peggiore flop degli ultimi anni. E insieme, manifesta la curiosa propensione del ministero guidato da Giuliano Poletti ad “abbellire” i numeri quando le cose non vanno. 
«Garanzia Giovani» è un programma europeo rivolto ai ragazzi che non studiano né lavorano - i cosiddetti «Neet» - tra i 15 e i 29 anni, nei Paesi con disoccupazione giovanile oltre il 25%. Da noi la disoccupazione giovanile è al 40% circa, e i «Neet» fino a 29 anni sono 2,2 milioni: quelli coinvolti potenzialmente dal programma - così scrisse il governo all’avvio, nell’aprile del 2014 - sono 1,7 milioni. Bruxelles su quest’operazione ha investito 6 miliardi di euro, di cui ben 1,5 sono andati all’Italia, da spendere per coloro che si registravano al programma su di un portale. Sulla carta, il giovane registrato sarebbe stato convocato dagli uffici dell’impiego, e poi avrebbe dovuto iniziare un’esperienza lavorativa retribuita. Oppure un tirocinio o uno stage fino a sei mesi, pagato 4- 500 euro al mese. Una bella esperienza per uscire dalla stasi e (chissà) andare verso un lavoro «vero». 

Iscritto un ragazzo su tre  
Il programma è cominciato nel maggio del 2014. Ha avuto una partenza disastrosa, una fase intermedia catastrofica, e adesso arrivato a 11 mesi di vita continua a essere un clamoroso flop. Uno, perché i giovani non si sono iscritti: sulla platea potenziale, si è registrato solo il 28,5%. Due, in ben 11 mesi solo la metà degli iscritti sono stati contattati per un primo colloquio dagli uffici pubblici (il 14,1% del totale potenziale). Tre, sono riusciti ad avere un’occasione di lavoro o tirocinio in pochi: solo il 3,8% dei 1,7 milioni potenziali. Appunto, 65mila su milioni di «sfiduciati» o senza impiego. Al ministero del Lavoro tutto questo è noto: fino a gennaio nei rapporti settimanali gli uffici di Poletti registravano appunto 1,7 milioni di Neet come «bacino potenziale». Ma nell’era della «narrazione» renziana, i fallimenti non sono ammessi. E allora a partire da febbraio il ministero di Poletti ha pensato bene di modificare drasticamente il «bacino potenziale». Da 1,7 milioni li ha ridotti a soli 560mila, ovvero «i giovani che potranno essere raggiunti sulla base delle risorse disponibili e della spesa massima assegnata a ciascuna misura disponibile». Chiaramente, i dati appaiono più «belli» e adeguati allo stile comunicativo del governo.  

I nodi da sciogliere  
Il flop di Garanzia Giovani ha tanti padri, comunque. Si va dalla conclamata inefficienza del sistema pubblico dei servizi all’impiego alla frammentazione delle Regioni, che ha reso caotiche le regole. Le imprese si sono disinteressate. Poi ci sono i vizi della politica: in Campania il governatore Caldoro ha varato 2.500 tirocini negli uffici pubblici pagati 500 euro al mese. Sei mesi, fino alle elezioni, e poi a casa. Infine, c’è la disastrosa burocrazia pubblica: tanti giovani dopo tre-quattro mesi di lavoro o stage non hanno ancora visto un centesimo.  

Roberto Giovannini, 

La Garanzia Giovani fa flop. Pochi tirocini per gli iscritti, "La Stampa", 5-04-15. 

lunedì 6 aprile 2015

Bullismo: la parola a Franco Cardini.

[...]  Da molti anni, in tutto l’Occidente ma forse in particolar modo da noi in Italia, la società sta attraversando una crisi etica e identitaria il centro della quale sta nel rapporto tra l’individuo e la comunità, cioè nell’equilibrio tra diritti e doveri senza il quale un consorzio umano è incapace di reggersi.
Tra Anni Sessanta e Anni Settanta imboccammo con qualche esitazione ma con una scelta irreversibile la strada del “vietato vietare”: la via nella quale – con un singolare paradosso - era strettamente proibito qualunque atteggiamento di quelli che allora si definivano “repressivi”; al contrario, era necessario adottare la più larga e generalizzata permissività. I concetti di autorità e di autorevolezza vennero allora fatto oggetto di una critica demolitrice che lo confondeva con quello di autoritarismo; e più o meno tutti ci piegammo a quella nuova forma di tirannia. Molti lo fecero in quanto intimamente convinti, parecchi per conformismo o per pigrizia, qualcuno in malafede politica in quanto convinti che ciò avrebbe minato alle basi la “società borghese” e favorito la “rivoluzione”. Furono proprio la scuola e la famiglia gli àmbiti privilegiati per quell’esperimento.
Le condizioni particolari in cui si era sviluppata quella bislacca e socialmente autolesionistica cultura svanirono abbastanza presto, ma la tendenza rimase anche perché si sposava bene con le tendenze consumistiche e con la fuga dalle responsabilità. Da allora, venne progressivamente meno l’autorità generazionale specie all’interno dei nuclei familiari e nella scuola. I risultati di ciò, specie in termini di convivenza sociale, non tardarono a mostrarsi: basti pensare alle nostre strade, ai giardini pubblici, alle cabine telefoniche divelte, ai treni e agli autobus dove viaggiare senza biglietto, sporcare i sedili e riempire le pareti di “graffiti” divenne la norma. Anche il rimproverare i giovani, i giovanissimi e addirittura i bambini per comportamenti ritenuti scorretti divenne qualcosa di contrario alla political correctness.
La crescita esponenziale del bullismo nelle nostre scuole è, in particolare, un fenomeno sociale ormai dilagante e che trova la sua origine profonda nell’impunità, anzi nell’incontrollabilità, della quale troppi dei nostri ragazzi godono in famiglia. Si assiste anzi al fenomeno di genitori che, per un malinteso senso protettivo o per una profonda consapevolezza d’incapacità a farsi valere, appoggiano i loro figli nel caso la scuola contesti loro comportamenti scorretti se non addirittura violenti. La fine della sistematica solidarietà tra famiglie e istituzioni scolastiche, uno dei drammi strutturali più gravi della nostra società, è approdata a una quasi sistematica solidarietà tra genitori e figli contro gli educatori.
Come sempre accade nel caso delle malattie croniche trascurate, la situazione è ormai arrivata a un livello insostenibile. Se davvero si vuol rifondare una “buona scuola”, bisogna partire da qui. La lotta contro questa crisi d’autorità ormai giunta a livelli pericolosi per la stessa sopravvivenza della società. La lotta per la fondazione di un nuovo vero patto sociale tra i cittadini italiani, che coinvolga e responsabilizzi tutti, a cominciare dai giovanissimi. La stessa difesa della famiglia comincia da qui: altrimenti, qualunque provvedimento sociale o economico o fiscale in favore die nuclei familiari sarà vano.
Ma il punto è che le ordinarie misure disciplinari, e nei casi più gravi addirittura giudiziarie, si stanno ormai rivelando non solo insufficienti, bensì addirittura inefficaci. Per ottenere di nuovo la collaborazione delle famiglie all’istituzione scolastica e la responsabilizzazione dei giovani più refrattari all’educazione, è opportuno colpire l’unico residuo punto debole delle une e degli altri: l’unica realtà alla quale essi – cadute quelle civiche e morali – siano sensibili. L’elemento economico, la sanzione pecuniaria.
I docenti scolastici sono e restano pubblici funzionari: ebbene, s’introducano con rigore nelle scuole (e magari nelle università) gli stessi princìpi che valgono in autobus o in treno per costringere gli inadempienti a pagare il biglietto e per evitare o combattere efficacemente qualunque forma di resistenza a pubblico ufficiale. Ammende pecuniarie serie, pesanti, concretamente ed efficacemente riscosse, nei confronti delle quali si sappia che i ricorsi sono inutili (non cosucce eliminabili dalle decisioni di qualche TAR). S’introduca nella scuola il principio che le censure per comportamento scorretto (un tempo si diceva “cattiva condotta”), traducendosi in un danno immediato anche per l’efficienza di un pubblico servizio, possano comportare multe e forte aumento delle tasse scolastiche. In questo modo, forse, le famiglie saranno indotte a collaborare e i figli indisciplinati invitati drasticamente ad adottare comportamenti migliori nel loro stesso interesse. Toccando le une e gli altri su quanto ormai hanno di più sacro al mondo. Sull’unica cosa che ormai sembra rimasta sacra. Il portafogli.

domenica 5 aprile 2015

Sempre più robot nella vita di ogni giorno.

iRobot, l’azienda statunitense celebre per essere l’artefice dell’aspirapolvere Roomba, un congegno dotato di un’intelligenza artificiale e in grado, una volta messo in moto, di pulire i pavimenti senza bisogno dell’intervento di alcun operatore umano, ha lanciato la settimana scorsa le ultime linee di prodotti per il mercato europeo: il Roomba 800, che alle normali setole sostituisce dei cilindri rotanti e degli “estrattori ad aria”, in gradi di risucchiare e sbriciolare la sporcizia raccolta e lo Scooba 450, un robottino per la pulitura con acqua dei pavimenti, presentato al Ces di Las Vegas lo scorso gennaio.  

Nella conferenza stampa non si è parlato comunque solo di aspirapolveri. Quello di iRobot, con un’esperienza più che ventennale nel settore della robotica, 500 dipendenti e 484 milioni di dollari di fatturato nel 2013 e un patrimonio di brevetti che, secondo una classifica del Wall Street Journal la colloca quinta al mondo – davanti a Samsung – per valore della proprietà intellettuale, è un osservatorio privilegiato per capire come i robot stiano iniziando a fare il loro ingresso in massa nell’industria. Un ingresso profetizzato da tempo, ma finora in larga parte soltanto abbozzato. Abbiamo incontrato a Monaco l’amministratore delegato e co-fondatore dell’azienda, Colin Angle, per farci raccontare come stia cambiando il panorama dell’automazione e cosa dobbiamo aspettarci dall’entrata in massa dei robot nelle nostre vite. 

Nella presentazione accennava al fatto che l’atteggiamento generale verso la robotica è cambiato, negli ultimi tempi. Ci può illustrare meglio quel che intendeva?  
“È l’intera industria ad essere differente. Il fatto che Google e Amazon abbiano investito in maniera massiccia in questo campo ha portato tutti a guardare questo settore con maggiore rispetto. Penso che credano che, quando il settore del mobile comincerà a rallentare la sua crescita, quella dei robot potrebbe essere la prossima cosa importante. Inoltre noto che, negli ultimi tempi, parlando con gli investitori mi fanno molte più domande sulla nostra tecnologia che sui dati di vendita, vogliono sapere quali sviluppi possono e quali nuove applicazione possono esserci, più che chiedermi semplicemente: “quanti robot pensate di vendere in Italia quest’anno?”.  

A volte non è facile capire cosa si intenda esattamente per “robot”, quali caratteristiche debba avere una macchina per poterla considerare tale. Lei come lo definirebbe?  
“La mia risposta è una tecnica, direi una macchina che usa dei sensori per percepire l’ambiente circostante e un’intelligenza artificiale per pensare a quello che vede e dei motori per spostarsi dove necessario. È una buona definizione, ma tutto sommato forse è una definizione troppo ampia; penso che si potrebbe dire che è qualcosa che comunica un senso di “vita”, una macchina che risponde all’ambiente in maniera simile a un organismo vivente. Penso però che questo stia cambiando; moltissime macchine stanno incorporando una qualche forma di intelligenza per cui diventerà sempre più difficile distinguere ciò che è un robot da ciò che non lo è”. 

Conta anche l’aspetto antropomorfo? Un tempo si pensava che rendere i robot più somiglianti agli umani, potesse servire a renderli più accetti.  
“Penso che quella dell’antropomorfismo sia una limitazione non necessaria. Non c’è un motivo particolare perché non possa essere utilizzato, ma penso che spesso il modo con cui ci avviciniamo a un problema sia “cosa farei io?” e quindi si progetta un sistema che si comporti allo stesso modo. Ma questa non è quasi mai la soluzione giusta. Oltre a ciò che il rischio che se li si rende troppo simili a un umano, da interessanti diventino grotteschi. Se stessi seduto qui e la mia faccia fosse rigida, di plastica, non le sembrerebbe bello, ma fastidioso, l’obiettivo è quello di avere un robot che abbia degli elementi che tu possano renderlo riconoscibile, per esempio qualcosa che assomigli a una testa, a cui parlare. O qualcosa che assomigli a un corpo. Ma non dovrebbe essere troppo simile a una persona. Abbiamo fatto degli esperimenti molto interessanti con il robot Ava (un robot adoperato per effettuare diagnosi mediche a distanza n.d.r.). La prima volta che l’abbiamo portato negli ospedali non aveva la “pelle”, solo metallo e cavi, e la gente era molto scettica. Ci dicevano “si muove troppo velocemente” oppure “mi sta troppo vicino”. Abbiamo messo una copertura e l’abbiamo riportato lì, e questi difetti sono scomparsi. Il look del robot perciò ha un effetto su come viene percepito, ma basta avere una rappresentazione stilizzata di un essere umano, non serve che sia troppo simile”.  

Cosa ne pensa di Ray Kurzweil e delle sue teorie sulla singularity, il punto in cui le macchine svilupperanno una loro forma di auto-coscienza?  
“Penso che il futuro sarà molto più strano. Molto prima di raggiungere una qualche singularity dovremo abituarci al fatto che la tecnologia possa essere impiantata nel nostro corpo. Oggi ci sono molte ricerche sul fatto di poter rimpiazzare la perdita dell’udito con un orecchio robotico, o quella della vista, con un occhio robotico. O un braccio robotico controllato con la mente, e così via. Ma questo darà origine a una serie di questioni. Cosa succederà quando tuo figlio verrà da te e ti dirà: papà voglio sostituire il mio braccio con uno robotico perché ha un aspetto migliore ed è dieci volte più potente? L’idea che la tecnologia possa arrivare a un punto in cui sia migliore dell’originale è qualcosa a cui ci dovremo rapportare e chiederci: è quello che vogliamo? A me piace essere umano e penso che i robot debbano servire soprattutto per agevolare la vita delle persone. In un’epoca di aumento della vita media, dobbiamo trovare ad esempio un modo di permettere a persone anziane di andare al bagno o spostarsi senza dover ricorrere a personale umano, che magari non si potrebbero permettere”.  

E per quanto riguarda la cosiddetta disoccupazione tecnologica? I robot da voi creati non eliminano posti di lavoro? Per esempio, un robot come lo Scooba, che pulisce i pavimenti, non sostituisce almeno in parte la donna delle pulizie
“È una domanda difficile. La lavastoviglie ha creato problemi di disoccupazione? Di solito si pensa che abbia dato al contrario nuove opportunità alle donne di cercare un lavoro fuori da casa. Man mano che sviluppiamo strumenti per eliminare la fatica, si creano nuove possibilità di impiegare quel tempo. Oltre a ciò, in molti paesi sviluppati, è difficile trovare personale che sbrighi le faccende più umili. Non si tratta quindi di rimpiazzare i lavoratori, ma di dare la possibilità a più persone di accedere a servizi che non si potrebbero permettere per via del loro budget o del loro stile di vita. Una volta stavo facendo un’intervista radiofonica e un ascoltatore è intervenuto dicendo: “ho perso il mio lavoro, a causa di un robot. Oggi lavoro a costruire robot, e mi pagano molto di più!”. Stiamo creando una nuova industria che creerà migliaia, milioni di posti di lavoro e sono molto fiero di far parte di questa rivoluzione”. 

Federico Guerrini, Dacci oggi il nostro robot quotidiano, "La Stampa", 11-03-14.