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martedì 30 settembre 2014

Un modello di scuola: Eton (UK).

Tony Little
   
Il mondo è cambiato così tante volte dal 1440, quando Eton, la scuola superiore più esclusiva della Gran Bretagna, fu fondata da re Enrico VI. «Anche Eton è cambiata, naturalmente - spiega il suo rettore Tony Little - . Nessuna grande istituzione sopravvive, a meno che non si reinventi a ogni generazione. Chi visita Eton è consapevole della continuità e della tradizione, grazie agli antichi edifici e all’uniforme che indossiamo. Ma sotto traccia la scuola continua a evolversi». 

Perché questa scuola è così famosa in tutto il mondo? E perché è così difficile ottenere l’ammissione?  
«Perché è una buona scuola. E lo è per quattro ragioni fondamentali: intanto la tradizione. Se vivi e cresci in un luogo dove per 600 anni generazioni di ragazzi sono andati a fare cose interessanti, la generazione attuale si chiede: ”Perché non io?” Così si costruisce la fiducia nella capacità di raggiungere i propri obiettivi. Secondo: i ragazzi mi dicono che c’è una forte aspettativa di eccellenza tra loro. È interessante perché proviene dagli altri ragazzi, non solo dagli insegnanti. Inoltre vi si insegna una cultura che porta all’indipendenza intellettuale e alla fiducia nelle proprie idee, oltre al senso di appartenenza a una comunità. Infine, incoraggiamo i giovani a essere assertivi e dinamici, convinti di poter fare la differenza».  

Perché solo gli uomini?  
«In parte per tradizione, ma una scuola esclusivamente maschile ha dei punti di forza. Eton potrebbe diventare una buona scuola mista, ma sarebbe molto diversa».  

Ma il mondo è cambiato, ovunque la gente vuole la parità tra i sessi, no?  
«Le nuove scuole di New York, le Eagle Academies, sono riservate ai maschi».  

E le femmine?  
«Ci sono diverse scuole femminili eccellenti, e di solito tendono a essere più piccole. Ad esempio, la Wycombe Abbey School, con un altissimo rendimento scolastico». 

Avete buoni risultati accademici?  
«Non valutiamo gli studenti solo sulla base dei valori accademici».  

Quali sono gli altri criteri?  
«Cerchiamo tre aspetti. In primo luogo, che un ragazzo sia in grado di inserirsi nell’ambiente accademico. In secondo luogo, ci aspettiamo che chi viene qui abbia qualche abilità o interesse da condividere con gli altri. Potrebbe essere il clarinetto, o l’archeologia egiziana o il calcio. Se il ragazzo è interessato solo alla carriera scolastica non è adatto a compiere qui la sua formazione, almeno in generale. Infine chiunque arriva qui deve avere la forza emotiva per vivere lontano da casa per cinque anni, tra i 13 e i 18».  

Lei è arrivato la prima volta a Eton da studente, grazie al suo talento musicale. Com’è successo?  
«Fino al 1968 Eton aveva un coro scolastico per i bambini fino ai 13 anni. Io entrai nel’Eton Choir School ed ebbi la fortuna di essere selezionato per il College con una borsa di studio».  

In questi 12 anni da preside ha aumentato le borse di studio?  
«Attualmente abbiamo 250 ragazzi con un’assistenza finanziaria significativa. La media è di uno sgravio del 60% delle tasse, fino al 100%».  

Avete studenti da tutto il mondo?  
«La domanda internazionale è molto alta, ma siamo intenzionati a rimanere per lo più una scuola britannica: abbiamo tra il 10 e il 12% di studenti che provengono da tutto il mondo».  

Ci sono distinzioni di classe?  
«Vogliamo ragazzi che dimostrino carattere e capacità, qualunque sia il loro ambiente, etnia o religione. Abbiamo anglicani e cattolici e tutor per i musulmani, ebrei, indù e buddisti».  

Quanti ragazzi vanno all’università dopo il diploma?  
«Ogni anno ne escono 260 e la maggior parte va all’università. L’anno scorso abbiamo avuto 99 offerte da Oxford e Cambridge, 25 per la Ivy League e il resto da altre università britanniche».  

Le materie umanistiche sono ancora importanti in un mondo dove tanta attenzione è rivolta alla tecnologia?  
«Le quattro grandi aree tematiche che interessano ai ragazzi sono economia, storia, lingue moderne e scienza».  

Come formate le opinioni politiche dei giovani?  
«Incoraggiandoli a sviluppare un sano scetticismo: è importante avere l’abitudine di mettere in discussione».  

L’età dai 13 ai 18 anni è piuttosto difficile, come l’affrontate?  
«Il tempo impegnato dalle lezioni è minore rispetto a quello speso in altre attività. Per i ragazzi il fine dell’esperienza è l’educazione, non solo la formazione accademica. In primo luogo, i ragazzi imparano di più gli uni dagli altri che dagli adulti. In secondo luogo, imparano tanto fuori della classe, come in classe. Quindi, se l’istruzione avviene solo nelle ore di lezione hai perso enormi opportunità per aiutare i giovani a sviluppare una personalità strutturata, utile nella vita adulta».  

Gli adolescenti sono diversi oggi?  
«La natura umana non cambia molto. Siamo ancora guidati dagli stessi impulsi; l’amore, la paura, l’odio. Cambiano le abitudini: gli studenti oggi sono più consapevoli della competitività del mondo e quindi si applicano di più».  

Cosa insegna loro?  
«La funzione della scuola è creare buoni cittadini. È il motivo per cui le scuole esistono. Si potrebbe imparare sul libri stando a casa. Ma la scuola crea un ambiente in cui i giovani capiscono la società e vi trovano un ruolo».  

Il rettore della scuola superiore più esclusiva della Gran Bretagna, "La Stampa", 28-09-14. 

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Sotto, una serie di video sul college:




Pistole Taser: finalmente anche in Italia ?

Dopo lo spray al peperoncino e le microcamere sulle divise, che dopo mesi di sperimentazione potrebbero fare il loro esordio “ufficiale” in ordine pubblico giovedì a Napoli, è in arrivo un nuovo strumento per i poliziotti: la Commissione Affari Costituzionali della Camera ha approvato un emendamento al decreto stadi che autorizza la sperimentazione del Taser, la pistola elettrica. L’emendamento, che dovrà ora ricevere il via libera dall’Aula, è stato approvato dopo che il viceministro all’Interno Filippo Bubbico ne ha proposto una riformulazione rispetto al testo iniziale di Forza Italia: la sperimentazione dovrà avvenire «con le necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo principi di precauzione e previa intesa con il Ministro della salute». Presto dunque il Taser, che produce una scossa elettrica che rende la persona colpita inoffensiva per alcuni secondi e che già utilizzano diverse polizie europee, potrebbe approdare nelle questure. 

COME FUNZIONA  
La pistola emette una scarica ad alto voltaggio (circa 50 mila volt) a basso amperaggio, partendo da una normale batteria da 7.2 volt. Quando il Taser viene azionato proietta due dardi, collegati con fili elettrici alla pistola, con traiettorie non parallele perché l’efficacia aumenta quanto più i dardi sono distanti tra loro. Per produrre l’effetto non è necessario che le freccette tocchino la pelle, essendo sufficiente che si piantino negli abiti in qualsiasi punto del corpo. La scarica di corrente emessa dal Taser fa effetto quasi sempre ed è più efficace se si colpiscono i muscoli. La persona colpita cade a terra per le contrazioni e rimane in posizione fetale. La scarica può immobilizzarla nel giro di due secondi e per parecchio tempo. Secondo uno studio della `Wake forest university school of medicine´, su mille individui il 99,7% colpiti dalla pistola elettrica non riporta danni o solo danni leggeri, anche se altri studi evidenziano possibili rischi specie su persone affette da problemi cardiaci. Sul mercato esistono due tipi di pistola Taser: la differenza sostanziale è che un modello possiede un normale innesco elettrico, mentre l’altro è azionato con anidride carbonica. 

AMNESTY: IN AMERICA 864 MORTI  
«C’è da augurarsi - dice il promotore dell’emendamento Gregorio Fontana - che la condizione posta dalla riformulazione non si trasformi in una manovra ostativa, verso un’operazione di ammodernamento tecnologico, di estrema utilità per gli operatori della sicurezza e per tutti i cittadini». Contraria Sel, con il capogruppo in Commissione Daniele Farina: «Numerosi studi e rapporti ne hanno rilevato la pericolosità e l’uso indiscriminato nei paesi dove l’armamento è stato adottato». Allarmato il commento di Amnesty International: «Sulla questione-taser c’è un sentimento di preoccupazione. Le esperienze vissute tra Usa e Canada non ci lasciano tranquilli. Dal 2001 i morti “taserizzati” sono stati 864, e il 90% di questi era disarmato», afferma Riccardo Noury, portavoce Amnesty International per l’Italia. 

LE NOVITA’ PER GLI AGENTI  
Al Dipartimento di Pubblica Sicurezza si guarda invece con interesse alla possibile sperimentazione. Perché lo spray, le microcamere e, domani il Taser, sono strumenti che vanno verso un’unica ottica: ridurre al minimo il contatto fisico tra operatori di polizia da un lato e cittadini dall’altro. E, di conseguenza, ridurre drasticamente i rischi che un arresto o una carica di alleggerimento possano degenerare, come accaduto in passato e come insegna ad esempio la storia di Federico Aldrovandi. «Piano piano - commenta il segretario del Sap Gianni Tonelli - si comincia ad abbattere un pregiudizio di fondo verso determinati strumenti, che non sono di repressione ma di prevenzione, anche se la strada da fare è ancora molto lunga». Per l’Associazione nazionale dei funzionari di Polizia «sarebbe preferibile impiegare già nella fase sperimentale pistole Taser che dispongono di un sistema di videoregistrazione connesso automaticamente al loro uso, come avviene già in Francia» a garanzia di agenti e cittadini. 

ARRIVANO LE MICROCAMERE SULLE DIVISE  
In attesa che il Parlamento si pronunci sul Taser, faranno intanto l’esordio ufficiale in ordine pubblico le microcamere installate sulle divise, la cui sperimentazione è in corso a Roma, Napoli, Torino e Milano: in occasione del vertice della Bce di giovedì a Napoli, gli agenti dei reparti mobili potranno utilizzare i nuovi strumenti e sarà il dirigente incaricato della gestione della piazza a decidere se sussistono o meno le necessità per la loro attivazione. Nel parere con cui il Garante della privacy ha dato il via libera all’utilizzo, si sottolinea infatti che il sistema, per quanto finalizzato alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, alla prevenzione, all’accertamento o alla repressione dei reati, è pur sempre soggetto al rispetto dei principi del codice privacy sul trattamento dei dati personali. E dunque le immagini riprese dovranno essere pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolte. Ecco perché il sistema dovrà essere attivato solo ove vi sia effettiva necessità, ossia nel caso di insorgenza di concrete e reali situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine e della sicurezza pubblica. Le riprese, inoltre, dovranno essere conservate per un periodo di tempo limitato e poi cancellate. 

lunedì 29 settembre 2014

Hong Kong: i giovani in piazza per difendere la democrazia.

Mentre in molte società occidentali il tasso di assenteismo elettorale ha superato ormai il 50 %, a Hong Kong decine di migliaia di cittadini  -e tra loro diversi studenti-  protestano pacificamente contro l'intenzione di Pechino di privarli di uno dei diritti fondamentali di una società democratica: quello di poter votare liberamente.

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Decine di migliaia di giovani si sono riversati nelle strade principali del distretto finanziario Central di Hong Kong per il quarto giorno di fila per chiedere alla Cina il rispetto della democrazia e il suffragio universale, prima promesso e poi negato dal regime comunista.
POLIZIA VIOLENTA. Nelle notti scorse i manifestanti di Occupy Central, insieme ai professori e agli studenti universitari e liceali, hanno occupato molte arterie principali della città bloccando il traffico. La polizia ha cercato di disperdere la folla usando lacrimogeni e prendendo i manifestanti a manganellate. Alcuni studenti sono stati arrestati e poi rilasciati. La violenza usata dalla polizia ha scosso la popolazione, che oggi è scesa ancora più numerosa in strada.
«PRONTI ALL’ARRESTO». Chan Kin-man, tra i fondatori del movimento Occupy Central, ha dichiarato: «Noi manifestiamo contro gli ordini del governo centrale di Pechino, quindi siamo pronti ad essere arrestati. Siamo professori, intellettuali, bravi cittadini, siamo consapevoli che quello che stiamo facendo, anche se è pacifico, è illegale. E se ci arresteranno non ci faremo difendere da avvocati. Noi, bloccando il centro, violiamo la legge ma lo facciamo per suscitare la consapevolezza, la discussione della gente, la loro simpatia». 
CONDANNA DELLA CINA. «Se gli abitanti del Territorio hanno appoggiato la protesta, a Pechino i giornali vicini al regime hanno scritto editoriali di fuoco: «Come cittadini della Cina continentale proviamo dolore nel vedere il caos a Hong Kong. La colpa è delle forze dell’opposizione radicale, che ha danneggiato l’immagine globale di Hong Kong, mostrando la faccia turbolenta della città», si legge sul Global Times, che continua: «Gli attivisti radicali sono destinati a fallire. I gruppi di opposizione sanno bene che è impossibile modificare la decisione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo cinese», che ad agosto ha negato ad Hong Kong il suffragio universale.
«ESERCITO PUÒ INTERVENIRE». Molti hanno già paragonato la manifestazione di questi giorni a quella di Piazza Tiananmen del 1989. Il paragone forse è un po’ improprio ma Pechino, nella versione cinese del citato editoriale del Global Times, dimostra di prendere questa protesta altrettanto sul serio: «L’intervento a fianco della polizia [di Hong Kong] delle forze armate potrebbe velocemente riportare la stabilità in città». Il dipartimento della propaganda di Pechino ha inoltre ordinato di «eliminare da internet tutte le informazioni sugli studenti di Hong Kong che violentemente assaltano il governo. Cancellare prontamente ogni informazione dannosa».

Leone Grotti, Hong Kong, la Cina minaccia gli studenti: «L’intervento del nostro esercito a fianco della polizia può riportare l’ordine», "Tempi", 29-09-14.

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Chi vuole una vera democrazia per Hong Kong è invitato al nostro primo banchetto il primo ottobre». Così gli organizzatori del movimento Occupy Central hanno invitato tutta la popolazione a mangiare nel Chater Garden del Territorio, all’interno del famosissimo quartiere finanziario Central, per spingere la Cina nel giorno in cui Pechino celebra la nascita della Repubblica popolare a tornare sui suoi passi e mantenere le sue promesse: concedere il suffragio universale a Hong Kong.
UNA NAZIONE, DUE SISTEMI. Il tema scuote da anni la vita sociale dell’ex colonia inglese ma negli ultimi mesi il tema è diventato così sensibile da mobilitare fino a 800 mila persone. Quando nel 1997 Hong Kong è tornata sotto il dominio cinese, in seguito a un accordo firmato con il Regno Unito nel 1984, Pechino promise che la città avrebbe goduto di «un alto livello di autonomia per altri 50 anni» in nome del principio “Una nazione, due sistemi”.
COMANDA LA CINA. Per dare il tempo alla popolazione di prepararsi a una reale democrazia, è stata rimandata l’adozione del suffragio universale per eleggere il capo del governo di Hong Kong. Attualmente, la guida dell’esecutivo viene eletta da una Commissione elettorale composta da 1.200 membri delle élite industriali e politiche. Queste vengono nominate a metà dal popolo e dalle corporazioni vicine a Pechino. In questo modo la Cina è sempre riuscita a controllare Hong Kong.
LA TRUFFA. Nella Basic Law però, la Costituzione del Territorio ereditata dagli inglesi, c’è scritto che «lo scopo finale» è eleggere il capo del governo «tramite suffragio universale». La Cina aveva giurato che nel 2017 Hong Kong lo avrebbe ottenuto, ma nell’agosto del 2014 il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo cinese ha cambiato idea e su ordine del partito comunista ha deciso che gli elettori avrebbero potuto scegliere il capo del governo da una lista di due o tre candidati nominati da una Commissione controllata da Pechino. Unico requisito formale: «Amare la Cina e Hong Kong».
«DISOBBEDIENZA CIVILE». La farsa cinese ha fatto scoppiare un putiferio. Il movimento Occupy Central, molto appoggiato dal cardinale Joseph Zen, che a giugno aveva portato in piazza 800 mila persone per chiedere il suffragio universale, ha raddoppiato le iniziative. L’1 luglio altre 500 mila persone erano già scese in piazza per la consueta Marcia per la democrazia. Ora i fondatori del movimento, i professori universitari Benny Tai Yiu-ting e Chank Kin-man, insieme al reverendo Chu Yiu-ming (nella foto si fanno tagliare i capelli, ndr), hanno annunciato la nascita di «una nuova era di disobbedienza civile, iniziando da un sit-in di massa nel Distretto finanziario della città».
STUDENTI IN PIAZZA. In attesa del primo “banchetto per la democrazia”, dove «nessuno dovrà indossare maschere né portare oggetti che possano sembrare armi perché la protesta è pacifica», anche 1.200 studenti liceali di Hong Kong hanno deciso di disertare questa settimana le lezioni per protestare contro «le promesse non rispettate da Pechino». A loro, si sono uniti anche centinaia di professori. L’esito della protesta è stato inaspettato, vista l’alta competitività del sistema educativo di Hong Kong. «Ci aspettavamo 100 persone – ha dichiarato l’organizzatore Joshua Wong Chi-fung – perché il costo in termini educativi di un liceale che boicotta le lezioni è molto più alto di un universitario». Anche loro si uniranno al banchetto per la democrazia e alla successiva sfilata per la via centrale del distretto finanziario Central.


  
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Sotto, una serie di video sulle manifestazioni di questi giorni:

































 






























domenica 28 settembre 2014

L'Europa può diventare un vero attore in campo militare ?


Le ultime guerre e le tensioni alle porte dell’Europa basteranno a convincere l’Unione a organizzare una difesa comune? O i margini di bilancio e la mancanza di volontà di cambiare strategia prevarranno?
I conflitti in Ucraina e Siria hanno rinnovato il dibattito su quanto l’Europa debba fare per stabilizzare le aree a lei vicine e proteggere i propri interessi.
Ma l’austerità è un ostacolo in questo percorso, visto che ci sono governi impossibilitati a spendere quel 2% di Pil necessario, secondo alcuni, per creare una vera difesa comune.
L’Europa continua a fare affidamento sulla Nato. Ma potrà sempre contare su essa, visto che gli Stati Uniti stavano ridimensionando il proprio ruolo, prima delle ultime crisi?
Chris Burns ne ha discusso con Michael Gahler, membro tedesco del Partito popolare europeo all’Europarlamento, Philippe Lamberts, copresidente dei Verdi/Alleanza libera europea all’Europarlamento e Paul Ivan, analista politico all’European Policy Center ed ex diplomatico. 

Strategie di difesa, l’Europa deve puntare a un esercito comune?, "Euronews", 25-09-14. 

sabato 27 settembre 2014

Il Regno Unito dopo il referendum del 18 settembre 2014.

Con il referendum sull'indipendenza della Scozia, il 18 settembre la scossa politica avvertita in Regno Unito si è sentita chiara e forte in tutta Europa, dalle Fiandre al Veneto.

Fortunatamente si è trattato solo di un avvertimento e le coste continentali non sono state travolte da nessuno tsunami d’Oltremanica. La Scozia, che da tre anni aspettava il referendum per l’indipendenza, ha votato No: better together, meglio insieme. Almeno così si è espresso il 55% di chi è andato alle urne.

La campagna per il referendum ha rappresentato una piccola rivoluzione, che ha portato di nuovo all’attenzione dei media e dei governi non solo l’idea di indipendenza, ma anche un modo di fare politica pacifico e inclusivo su argomenti decisamente delicati.

Una campagna caratterizzata dalla destrezza del Partito nazionale scozzese (Snp) e del suo ormai ex leader Alex Salmond, che hanno portato a un passo dal successo quello che fino a 6 mesi fa era un tema sconosciuto oltre la Manica e su cui la vittoria del No veniva data quasi per scontata.

La campagna per il Sì sembrava lontana dal successo. A marzo 2014 la causa indipendentista era data intorno al 31-32% dei consensi. La scalata è iniziata proprio in quel periodo, per poi rallentare in estate e crescere di nuovo in maniera vertiginosa tra la fine di agosto e i primi di settembre 2014. Il 6 settembre, il Sì è stato per la prima volta in vantaggio nei sondaggi (di due punti percentuali). Westminster ha sudato freddo.

Anche dopo la ripresa del No, non era affatto certo che la Scozia rimanesse nel Regno Unito. Le delegazioni di indipendentisti da Okinawa fino alla Sardegna aspettavano trepidanti a Edimburgo le ore 7.30 di mattina, quando tutti i voti, dalle isole più sperdute al centro di Glasgow, sarebbero stati contati. Già un'ora prima però Salmond ammetteva la sconfitta. Come è possibile che la campagna per il Sì sia arrivata così vicina alla vittoria?

Le premesse non erano rosee, e l'Snp ha già mancato l'obiettivo in passato: nel 1979 la proposta per un’assemblea deliberativa scozzese veniva affossata dall’insufficiente affluenza dei votanti (32,9% contro il richiesto quorum del 40%). La Scozia ha inoltre un passato unionista: il 1° partito del paese è stato, fino agli anni Cinquanta, lo Scottish Unionist Party.

Il risultato comunque straordinario dell’Snp è dovuto a un mix sapiente di abilità politica, diffusa insoddisfazione verso la politica tradizionale e una campagna inclusiva e non nazionalista nel senso tradizionale del termine. A differenza del Better Together, formato da Labour, Tory e Liberal per l’Unione, la Yes campaign ha puntato sulla penetrazione locale, mettendo sul campo numerosi volontari che coprivano le aree più sperdute della Scozia, dalle Ebridi ad Aberdeen.

L’Snp ha permesso a movimenti e partiti di supportare la causa indipendentista senza dover necessariamente sostenere il Partito nazionalista scozzese, il quale non ha avuto la "proprietà" esclusiva della mobilitazione, pur essendone la componente più importante. Ciò ha permesso l’inclusione di gruppi di sinistra, come il Common Wheel, i Greens, ma anche outsider di partiti che supportavano l’Unione, come nel caso dei Labours for Independence.

L’idea, o forse l’illusione, era quella che nel marzo 2014 ha espresso Alison Johnstone, leader dei Greens insieme a Patrick Harvie: una volta raggiunta l’indipendenza, ognuno proporrà il suo modello di Stato. Da qui è nato lo sforzo congiunto di parti che in comune hanno ben poco e che sostengono chi un modello norvegese, chi uno danese, chi lo sfruttamento del petrolio, chi quello delle risorse rinnovabili su base locale.

L’inclusione non è stata concepita solo a livello politico, ma anche sociale. In questo la lungimiranza dell’Snp è andata oltre il referendum stesso. Facendo in modo che potessero votare anche i giovani dai 16 anni in su e i cittadini europei residenti in Scozia, la base del consenso è stata estesa a gruppi che hanno largamente supportato la causa del Sì.

I votanti tra i 16 e i 17 anni, infatti, si sono espressi per il 71% a favore del Sì, mentre gli over-65 si sono arrestati al 27%. Nulla di stupefacente dato che la Yes campaign gestiva il più grande gruppo di giovani artisti per l’indipendenza, il National Collective, che ha chiuso con un grande evento, lo Yestival, al quale non sono mancate le celebrità. Anche gli immigrati sono stati inclusi nel progetto: nessun equivalente degli "Italians for Yes" o dei "Polish for Yes" era invece presente nello schieramento unionista.

L'Snp ha replicato, estendendolo, il concetto che lo ha portato al potere: dare una risposta migliore, e scozzese, ai problemi della Scozia. Un’idea che aveva lanciato il partito nazionalista scozzese a Westminster con la delusione della Thatcher prima e del Labour di Blair dopo. Nel 2014, questo approccio è stato la risposta ad alcuni temi che il parlamento britannico non aveva preso in giusta considerazione. Due per tutti: l’immigrazione e l’Unione Europea, dove peraltro l’Inghilterra (che ha registrato il successo dell’antieuropeista Farage) si contrappone a un Snp dichiaratamente pro-Ue.

Last but not least il carisma di Alex Salmond, un politico con vent’anni di esperienza da leader di partito e una grande capacità comunicativa nei confronti del popolo scozzese, come ha provato la lettera inviata ai votanti il giorno prima del referendum. Un primo ministro dotato di una certa scioltezza e humor, tanto da nominare per la famigerata Ice Bucket Challenge David Cameron, durante uno dei momenti più caldi del dibattito sul referendum. Un invito a una doccia scozzese cui il molto più inamidato Cameron non rispose.

Il buon risultato della campagna per il Sì sta anche nelle mancanze degli unionisti e dei loro leader. Se Alistair Darling, capo del Better Together, non riconosceva il carisma di Salmond, in Scozia la popolarità di Cameron era ai minimi storici, tanto da fargli perfinoriconoscere pubblicamente di non avere l'appeal necessario a sostenere la causa unionista.

Il problema del Better Together non è stato solo nei vertici, ma anche nell’approccio. Come sostiene Iain MacWhirter nel suo libroRoad to Referendum, il messaggio unionista è stato sostanzialmente disfattista e ha bollato gli scozzesi come "too weak, too stupid" per arrivare all’indipendenza. In effetti Darling ha posto l’accento più sui pericoli di una vittoria del Sì che sui benefici dell’Unione.

Gli argomenti del Better Together erano spesso di questo tipo: l’indipendenza sarebbe stata troppo costosa, le imprese sarebbero fuggite dalla Scozia che non avrebbe avuto le risorse per essere indipendente. Che ciò fosse vero non ci sono molti dubbi. Ma questa è stata la peggiore risposta a una popolazione attratta dall’indipendenza perché stufa dell'incapacità propositiva della politica tradizionale.

L’indipendenza, in effetti, avrebbe avuto delle ripercussioni negativeprobabilmente superiori ai benefici, per quanto sia molto complicato a dirsi. La Scozia avrebbe dovuto sopportare costi ingenti, come quelli per ridislocare i sottomarini nucleari (dai 3 ai 20 miliardi di sterline), approntare le strutture diplomatiche (non era sicuro che il Regno Unito avrebbe concesso le proprie), chiedere l'ammissione alla Nato e all'Ue.

Il pericolo di fuga di capitali sarebbe stato concreto con Standard’s Life, la Royal Bank of Scotland e i Lloyd’s pronti a minacciare uno spostamento dei propri uffici scozzesi nel Regno Unito già prima del referendum. Inoltre, il fatto che la Scozia continuasse a usare la sterlina avrebbe comportato la rinuncia alla propria politica monetaria, configurando il paese come un mero azionista della Bank of England.

Non che il Regno Unito o l’Ue avrebbero navigato in acque migliorinel caso di una Scozia indipendente. La Gran Bretagna, perso il più grande sostenitore della permanenza in Europa tra le sue nazioni, forse non sarebbe riuscita a contenere i nazionalisti del Partito per l'indipendenza del Regno Unito (Ukip) alle elezioni del 2015. Il referendum per l’uscita dall’Ue sarebbe diventato una realtà e i partiti tradizionali britannici si sarebbero scontrati con la crisi più grave di sempre.

L’Europa avrebbe invece affrontato l’euforia degli indipendentisti in tutti gli Stati membri, con conseguenze imprevedibili. Non è successo nulla di simile: Cameron non si è dovuto dimettere (ma sosteneva che non l’avrebbe fatto comunque) e la regina "ha fatto le fusa".

In fin dei conti, perché la Scozia non è diventata indipendente?Complicato a dirsi, sebbene il risultato non fosse del tutto inaspettato. Il Sì non partiva da una situazione vantaggiosa: gli indipendentisti dovevano convincere una nazione storicamente unionista a puntare su un’opzione molto rischiosa. Se la sapiente politica della Yes campaign e dell’Snp è riuscita a far guadagnare terreno alla causa indipendentista, il Better Together ha messo a segno due colpi importanti poco prima del voto.

Il primo è il cosiddetto "Nhs Leakage", la diffusione cioè di un documento secondo il quale l’Snp avrebbe apportato tagli consistenti alla sanità (National Health Service) dopo l’indipendenza, per coprire un buco di 400-450 milioni di sterline. Ciò ha avuto un consistente impatto sul pubblico scozzese, molto attento ai temi del welfare. Il rischio di privatizzazione è infatti al centro del dibattito politico nel Regno Unito da tempo e l’incertezza sul futuro economico di una Scozia indipendente ha contribuito ad amplificare l'argomento.

Il secondo punto è il cosiddetto "Devo max pledge", il documento firmato da David Cameron, Ed Miliband e Nick Clegg - capi dei tre principali partiti britannici - in cui si garantisce ulteriore devolution alla Scozia in caso di vittoria del No. Nel testo si promette di mantenere la corrente formula di redistribuzione della spesa pubblica (Barnett formula), di assegnare maggiori poteri al parlamento scozzese e di lasciare a Edimburgo le decisioni riguardo al proprio sistema sanitario nazionale.

Una mossa politica che in realtà si ispirava a quello che lo stesso Alex Salmond aveva proposto come terza opzione del referendum, ma che Cameron aveva rifiutato. Non va dimenticato poi l’intervento della regina, che poco prima del referendum invitò gli scozzesi a pensare molto bene al loro futuro. Un invito da non sottovalutare in un paese che appoggia fortemente la monarchia, tanto che lo stesso Salmond insisteva sul fatto che avrebbero mantenuto la regina come capo di Stato (magari con meno fusa).

Ad oggi l’Europa non ha al suo interno un paese in più, ma questo non vuol dire che il terremoto scozzese si sia concluso. Ci saranno conseguenze a breve e lungo termine che né la Scozia, né il Regno Unito nè l'Europa possono evitare di prendere in considerazione.

La prima si troverà compressa tra il risultato del referendum e la tempesta del post-Salmond. Con le dimissioni del primo ministro inizia una fase di successione che, anche se vedrà probabilmente la vice Nicola Sturgeon al suo posto, non è né semplice né scontata. Già la maggioranza in parlamento dell’Snp si è assottigliata, con un parlamentare dimissionario. Ciò in un momento in cui il partito deve cercare di non buttare al vento quanto conquistato in due anni, consolidando i voti ottenuti dal Sì - soprattutto quelli sottratti al Labour. Si tratta di concretizzare la promessa fatta nel "Devo max pledge" dai tre maggiori partiti britannici. Decisamente non semplice.

I problemi più grandi, tuttavia, saranno quelli che il Regno Unito si troverà ad affrontare sotto forma di questione inglese, elezioni 2015, referendum sull'Ue e Ukip. In realtà, il vero dilemma è la crisi di identità che Londra sta affrontando e di fronte al quale il referendum scozzese l’ha posta. Ue o Usa, piccolo o grande paese, frontiere aperte o chiuse, assetto federale o unitario. 

Inoltre la questione inglese - cioè l'assenza di un parlamento per l'Inghilterra - va risolta in fretta. Mancando della rappresentazione regionale che ha la Scozia, le questioni esclusivamente inglesi vengono discusse a Westminster, dove anche gallesi e scozzesi possono dire la loro. Un tema importante, se si considera che il leader dello Ukip Nigel Farage se ne è appropriato immediatamente, spostando la discussione sul piano del nazionalismo inglese: lui stesso ha dichiarato, con linguaggio non oxfordiano, che gli inglesi "have been suckers for too long" (potremmo tradurlo molto eufemisticamente con "sono stati passivi troppo a lungo").

Nodi che, insieme al referendum per l’uscita dall’Ue che lo stesso Farage chiede con ostinazione, verranno al pettine con le elezioni del 2015. Una scadenza su cui la vittoria del No ha un effetto positivo, ma su cui pesa un’insoddisfazione generale dell’elettorato britannico, dimostrata dal 45% dei consensi ottenuti dalla causa indipendentista.

Se Londra piange, Bruxelles non ride. Il No ha vinto e José Barroso ha tirato un sospiro di sollievo rispetto al cataclisma che avrebbe potuto travolgere l’Europa. Il fatto che il Sì sia arrivato così vicino alla vittoria e che la copertura mediatica sia stata così elevata ha però riportato in prima pagina le esigenze degli indipendentisti di tutta Europa.

Su molte tensioni internazionali sventola la bandiera dell'indipendenza: in Crimea, in Belgio dove l’alleanza indipendentista Nva è il primo partito, in Catalogna dove un milione e ottocentomila indipendentisti hanno sfilato a Barcellona pronti al prossimo referendum (consultivo) per l’indipendenza da Madrid. La vittoria del Sì avrebbe fatto esplodere la bomba dell’indipendentismo, il No l’ha semplicemente lasciata lì, inesplosa.

Il referendum ha avuto un grande merito: quello di dimostrare che anche argomenti politici controversi, come il nazionalismo e l’indipendenza di una nazione, possono essere discussi con fair play e tranquillità. Gli unici scontri che il post-referendum ha registrato sono stati quelli del 19 settembre in George Square a Glasgow: nessun ferito e solo un po’ di tensione, provocata soprattutto dagli unionisti orangisti, che tutta la Scozia conosce per essere una minoranza. Il dibattito tra le due parti è stato civile forse come mai nel passato europeo.

Pur giocandosi probabilmente l’unica possibilità per l’indipendenzada qui ai prossimi trent’anni (almeno), la Scozia ha mantenuto un notevole autocontrollo anche quando la discussione era tesa, come nel caso del dibattito sul sistema sanitario nazionale. In quell’occasione Salmond stesso non è andato oltre il chiamare "scaremongers" (allarmisti) i propri avversari.

L’Europa ha una lezione da trarre: i problemi legati all’insoddisfazione nei confronti della politica tradizionale ci sono. Il referendum scozzese dimostra che si possono discutere con serietà e democrazia. Alex Salmond ha commentato la vittoria del No invitando a non concentrarsi "sulla distanza che ci ha separato dall'arrivo, ma su quella che abbiamo percorso". Può essere un consiglio valido per tutti.

Lorenzo Colantoni, Arrivederci Indipendenza: Scozia, Regno Unito e Ue dopo la vittoria del No, "Limes", 26-09-14.