I nostri ragazzi possono gestire molteplici contatti su Facebook, Twitter o WhatsApp ma non sarebbero in grado di sostenere una classica conversazione. Lancia l’allarme Paul Barnwell, americano, professore di Storia medievale, che racconta accorato nel magazine «The Atlantic» il comportamento dei suoi studenti. I ragazzi, come molti loro coetanei in gran parte del mondo, siedono in classe con le mani sotto al banco e maneggiano furiosamente gli smartphone per controllare quello che accade sui loro social network, o per interagire con i loro contatti online.
Il docente decide quindi d’interrompere questa loro attività che giudica compulsiva, li richiama all’attenzione e lancia l’idea che vorrebbe impegnarli in una conversazione. Esplode il panico, gli studenti costretti ad alzare gli occhi dai loro display sono presi da crisi d’astinenza preventiva, qualcuno di loro già agguanta il telefonino temendo di doversi separare dalla sua protesi per comunicare.
La preoccupazione del professore è proprio legata all’inseparabile appendice che ogni studente sembra avere incorporata. Lui si chiede come quei ragazzi potranno mai sostenere una vita di relazioni tra esseri umani, quando saranno obbligati a interagire de visu, senza emoticon, senza i binari obbligati di una chat di un messenger, fuori dal loro habitat congeniale, dove basta metter un «like» per esprimere un consenso.
Il prof Barnwell è preoccupato perché in tutti i laboratori scolastici, in cui vede impegnati i suoi allievi con gli strumenti di produzione di pensiero digitale a loro familiari, non può fare a meno di osservare la loro incapacità di uscire da uno schema di relazione condizionato da quegli oggetti tecnologici. Insomma il professore va alla ricerca dell’equazione umana perduta, perché sono le macchine a stabilire le regole.
È facile immaginare che le sue siano domande che universalmente gli insegnanti si pongono, ogni giorno e in gran parte delle scuole tradizionalmente strutturate. L’impressione è che raramente il fisiologico divario generazionale abbia posto adulti e ragazzi in territori così inesorabilmente distanti. Questo per lo meno sembra ascoltando le grida di dolore di quanti invochino la perdita di senso critico, l’incapacità di relazione profonda in nome di semplice «connessione» (scomodiamo persino il vecchio prof. Zygmunt Bauman, profeta della «società liquida»).
È indubbio che negli ultimi due decenni l’umanità, dal punto di vista delle sue possibilità di relazione, abbia fatto un salto evolutivo mai accaduto nella sua storia precedente. Immaginiamo solamente quale sia la massa di persone che oggi possiamo raggiungere subito, perché memorizzate nella sim card del nostro smartphone, incomparabile con i nomi scritti a penna nell’agendina che si portava nella tasca della giacca un nostro coetaneo fino a metà degli Anni Novanta.
Tutto questo cambia sicuramente la nostra attitudine a comunicare e le nostre regole di comunicazione. Non significa che siamo «meno umani», anzi la nostra umanità viaggia più veloce e si afferma in maniera più potente, perché ci siamo consapevolmente evoluti. Purtroppo i nostri apparati di tradizionale trasmissione del sapere sono rimasti un passo indietro, in gran parte dei casi in mano a chi difende il proprio fortino in nome di un’umanità usurpata.
Spesso non basta mettere nelle aule un po’ di tecnologia per essere al passo; mi ha confessato mio figlio liceale che l’uso migliore della Lim ministeriale, la Lavagna interattiva multimediale che campeggia nella sua classe, avviene durante la ricreazione. L’insegnante esce, mentre addentano il panino gli studenti si sparano YouTube nel grande schermo e commentano tutti assieme i video che più li appassionano. Faranno anche un po’ di casino, ma nelle cinque ore in cui devono solo ascoltare e rispondere a domande su quello che hanno imparato leggendo un libro, è quella l’unica occasione che i ragazzi hanno di «conversare».
Gianluca Nicoletti, Perduti dentro un tweet, i ragazzi non conversano più., "La Stampa", 25-04-14.
Ormai si e' giunti a un livello di comunicazione che va al di là della privasy. Non c'è bisogno neanche di un nickname o uno pseudonimo.
RispondiEliminaSupponiamo che mandi un Curriculum Vitae...il datore di lavoro potrebbe avere informazioni su di te prima ancora di fare il colloquio.
Per me i Social Network sono un vespaio. Ma ci rendiamo conto di quanta energia spende ogni contatto stando ore e ore a sbirciare quello che fanno gli altri..
Inutile nascondersi dietro frasi del tipo: "È un posto dove posso sentire gli amici "... È solo uno status sociale
Musardo G. II^A
Internet contiene milioni di miliardi di informazioni riguardo ogni tipo di argomento e se solo venisse utilizzato con lo scopo di trarre conoscenza da questo, saremmo tutti molto colti e istruiti. Credo che internet sia un'arma molto potente, in quanto le informazioni non possono essere totalmente "comandate" o "filtrate", come può accadere molte volte sui giornali e telegiornali, ma si può accedere con molta facilità a contenuti nascosti. Nonostante ciò, credo che internet associato ad un cattivo utilizzo, possa essere un motivo di alienazione personale. In particolare i social network sono una lama a doppio taglio. Da una parte si può pensare di essere vicino a persone che si trovano dall'altra parte del mondo, ma dall'altra può creare dipendenza e problemi a livello sociale.
RispondiEliminaI problemi provengono non tanto dallo strumento in sé, ma dal modo con il quale questo viene utilizzato. A mio parere, dobbiamo stare più attenti a mettere in mano cellulari che hanno l'accesso ad internet a bambini e ragazzi che non sono in grado di utilizzarlo.
Sara Brogioni 3^Os
Brogionisara@gmai.com