La democrazia se la passa male. E’ davvero entrata in una fase calante? E perché è sempre più disprezzata, specialmente da coloro che vivono in paesi democratici e ne godono le libertà? Proviamo a ragionare disordinatamente su alcuni aspetti.
Anzitutto, esiste una democrazia reale e una democrazia ideale. La seconda è quella cui ogni paese democratico dovrebbe tendere, costantemente aggiornando le proprie istituzioni in modo da favorire inclusione e partecipazione alla vita civile, oltre che equilibrio tra i poteri in reciproco controllo. Il voto, massima espressione della democrazia, da solo non vale granché se manca la volontà di tenere al guinzaglio la bestia del despotismo: concentrazioni di potere politico o economico nelle mani di singole persone o ristretti gruppi non sono certo la democrazia cui è lecito aspirare. Ecco perché regimi come la Russia, l’Egitto, la Turchia, il Venezuela, non rientrano a pieno titolo nella categoria delle “democrazie” Essi sono ibridi necessari, in alcuni casi, a guidare paesi in momenti di transizione o frutto di particolari condizioni economiche e geopolitiche.
Il caso della Russia è assai interessante. Il regime di “democrazia controllata“, di fatto un despotismo soft, fa proseliti tra i cittadini dell’Europa delle democrazie liberali e in molti guardano a Mosca come a un modello di stabilità e sviluppo economico. Certo, mancano le tutele a molti diritti (politici, come la libera associazione partitica; sociali, come un un welfare state sviluppato e paritario; civili, come la libertà di autodeterminazione per molte minoranze) ma – dicono i sostenitori – non mancano anche nella “libera” Europa o persino negli Stati Uniti? Insomma, l’arroganza con cui il cosiddetto “occidente” ha sempre guardato al resto del mondo sta venendo punita dai suoi stessi cittadini: la democrazia ha perso il suo appeal, perché?
Forse l’emergere di potenze, come la Russia e soprattutto la Cina, in cui il benessere è in aumento malgrado il potere politico non sia democratico né liberale. La dottrina del partito unico cinese insegna come “la democrazia sia troppo complicata e troppo superficiale e permette ai politici di ingannare il popolo”, meglio un ferreo controllo delle attività economiche, politiche e sociali poiché “i valori democratici portano le società nel caos”.
La crisi economica ha profondamente danneggiato l’immagine della democrazia mettendone a nudo la fondamentale debolezza nel garantire equità e distribuzione delle ricchezze: così mentre a milioni perdono il lavoro, la corruzione politica e la forbice degli stipendi si allarga rendendo più ricchi chi già era ricco, e più povero chi si è trovato in una situazione di povertà. La mancanza, in molti casi, di ammortizzatori sociali, il collasso del modello economico neoliberista (quello che alcuni, a sinistra, hanno chiamato “finanz-capitalismo”) ha scosso alle radici il consenso verso la democrazia.
Più indietro nel tempo, la guerra in Iraq ha segnato un passaggio fondamentale della crisi della democrazia che stiamo vivendo: nel 2003 il presidente americano Bush giustificò l’invasione dell’Iraq come una battaglia per la libertà e la democrazia. Non era solo mero opportunismo, la leadership americana credeva davvero che il Medio Oriente sarebbe sempre stato un covo per terroristi senza la fiaccola della libertà a stelle e strisce. Ma l’inganno con cui quella guerra è stata motivata (complici anche le false prove della presenza di armi chimiche) ha gettato un discredito difficile da sanare sulla democrazia americana. E non è forse quella americana la democrazia “modello” per l’Europa?
L’unico tentativo di affrancamento concreto, che puntava a una “partnership of equals” con il vicino americano, è stata l’Unione Europea: realizzare una grande unità continentale, favorendo la diffusione di diritti civili e sociali, in nome della solidarietà e della fratellanza tra i popoli, è stato il sogno della generazione dei “padri fondatori” che videro con i loro occhi lo sfacelo della Seconda guerra mondiale.Ma fin dall’inizio l’Unione Europea ha difettato in democrazia. Si giustificò il deficit democratico come un problema insito nella creazione stessa dell’unità: un male necessario e temporaneo. Ad oggi non è stato superato concretamente malgrado le novità del Trattato di Lisbona.
La decisione di introdurre l’euro, come moneta unica, nel 1999 fu presa da tecnocrati: solo due nazioni, la Danimarca e la Svezia, tennero un referendum sulla sua introduzione ed in entrambi i casi i cittadini votarono contro. Gli altri paesi europei non ritennero necessario interrogare gli elettori trattando i cittadini alla stregua di bambini incapaci di decidere il proprio futuro. Nei giorni più neri della crisi economica, i governi eletti di Grecia e Italia – i due paesi maggiormente a rischio di default – vennero rimpiazzati dopo le pressioni di Bruxelles. Le persone scelte per guidare i due paesi fuori dal pantano erano espressione dell’élite europeista. In molti hanno visto in quel passaggio di poteri un’ingerenza europea negli affari di due stati sovrani e hanno mal digerito la nomina di nuovi leader non eletti.
Partiti populisti, abili a cavalcare il malcontento, si sono diffusi ovunque in Europa e sembrano destinati a ottenere risultati considerevoli alle prossime elezioni europee. Si tratta di compagini reazionarie, ultranazionaliste, neofasciste, xenofobe, ma anche neomarxiste, anticapitaliste e antiliberali, capaci di dar voce all’uomo della strada e alla sua frustrazione verso Bruxelles. Come scrive l’Economist, in What’s gone wrong with democracy, il progetto europeo, disegnato per addomesticare la bestia del populismo, sta spingendo il continente verso le sue fauci.
C’è poi un ultimo problema che rende le democrazie sempre più deboli. La globalizzazione economica ha cambiato profondamente la politica degli stati e molti politici nazionali hanno accettato di rinunciare a un numero sempre maggiore di poteri in favore di istituzioni sovranazionali come il Fondo monetario internazionale, il WTO, l’Unione Europea. Queste istituzioni si sono però dimostrate incapaci di affrontare la crisi (le misure di austerità da essi imposte l’hanno piuttosto aggravata) ma i governi si sono trovati senza gli strumenti necessari a cambiare rotta: il timone non era più nelle loro mani. La perdita di sovranità spinge molti cittadini europei verso più piccole realtà statali in cui poter esercitare una sovranità diretta: il diffondersi di regionalismi e indipendentismi va letto in questo senso.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale il numero di democrazie è costantemente aumentato, complice la decolonizzazione. Oggi vediamo che le primavere arabe, nate dal sincero malcontento verso i regimi autoritari precedenti, sono fallite e involute in altri regimi: quando in Egitto si è votato, l’esercito ha deciso che si era votato in modo sbagliato e ha preso il potere con un colpo di Stato che molti, nei paesi democratici, hanno visto con favore poiché toglieva il potere al partito islamico dei Fratelli Musulmani. Il caso della “rivoluzione” ucraina è solo l’ultimo in cui, in nome della democrazia, si rimuove un leader democraticamente eletto.
Le democrazie di oggi sono, in buona misura, oligarchie mascherate. Ma i cittadini confondono la maschera con la realtà e – attaccando la democrazia – si trovano a fare il gioco dell’oligarchia o, peggio, delle forze oscure dell’intolleranza e della rabbia. Come uscirne? C’è un solo modo: la riappropriazione della sovranità politica da parte dei cittadini evitando, in ogni modo, la tentazione del maggioritario – la nozione per cui chi ottiene la maggioranza dei voti governa e fa quello che vuole. E la disponibilità a sacrificarsi per ottenere maggiori diritti perché, come cantava Gaber, “il giudizio universale non passa nelle case in cui noi ci nascondiamo”. Esempi concreti, dai plenum bosniaci alle indignazioni madrilene, dalle commissioni no-partisan fatte da cittadini che consigliano i governi in Finlandia e in Svezia, ce ne sono.
La democrazia corre il rischio di vedersi schiacciata da nuove forme di potere despotico od oligarchico mascherate per democrazie “moderne” e “funzionali”. E in epoca di crisi molti cittadini sarebbero disposti a rinunciare a fette di democrazia in cambio di lavoro e sicurezza economica. Uno scambio che nessun cittadino dovrebbe essere costretto a fare. La democrazia non è obsoleta, la democrazia è ancora in buona misura da realizzare. Accusare la democrazia come sistema, quando le colpe dei suoi fallimenti sono da imputare a chi ne abusa, è un gioco pericoloso perché, al momento, una alternativa alla democrazia non c’è. La democrazia però va costruita e ricostruita e non bisogna permettere che venga chiamata “democrazia” cioè che democrazia non è. Dire che la democrazia non funziona è come dire che non funziona la terra perché non ci crescono le piante: bisogna bagnarla la terra. E la democrazia non è il deserto, la democrazia è fertile.
“La democrazia, come la concepiamo e la desideriamo, in breve, è il regime delle possibilità sempre aperte. Non basandosi su certezze definitive, essa è sempre disposta a correggersi perché tutto può sempre essere rimesso in discussione. In vita democratica è una continua ricerca e un continuo confronto su ciò che, per il consenso comune che di tempo in tempo viene a determinarsi modificandosi, può essere ritenutoprossimo al bene sociale”. (Gustavo Zagrebelsky)
Matteo Zola, La democrazia è in crisi. Un modello obsoleto ?, in "East Journal", 29-04-14.
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Sotto, alcuni video sull'argomento.
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