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sabato 27 settembre 2014

Il Regno Unito dopo il referendum del 18 settembre 2014.

Con il referendum sull'indipendenza della Scozia, il 18 settembre la scossa politica avvertita in Regno Unito si è sentita chiara e forte in tutta Europa, dalle Fiandre al Veneto.

Fortunatamente si è trattato solo di un avvertimento e le coste continentali non sono state travolte da nessuno tsunami d’Oltremanica. La Scozia, che da tre anni aspettava il referendum per l’indipendenza, ha votato No: better together, meglio insieme. Almeno così si è espresso il 55% di chi è andato alle urne.

La campagna per il referendum ha rappresentato una piccola rivoluzione, che ha portato di nuovo all’attenzione dei media e dei governi non solo l’idea di indipendenza, ma anche un modo di fare politica pacifico e inclusivo su argomenti decisamente delicati.

Una campagna caratterizzata dalla destrezza del Partito nazionale scozzese (Snp) e del suo ormai ex leader Alex Salmond, che hanno portato a un passo dal successo quello che fino a 6 mesi fa era un tema sconosciuto oltre la Manica e su cui la vittoria del No veniva data quasi per scontata.

La campagna per il Sì sembrava lontana dal successo. A marzo 2014 la causa indipendentista era data intorno al 31-32% dei consensi. La scalata è iniziata proprio in quel periodo, per poi rallentare in estate e crescere di nuovo in maniera vertiginosa tra la fine di agosto e i primi di settembre 2014. Il 6 settembre, il Sì è stato per la prima volta in vantaggio nei sondaggi (di due punti percentuali). Westminster ha sudato freddo.

Anche dopo la ripresa del No, non era affatto certo che la Scozia rimanesse nel Regno Unito. Le delegazioni di indipendentisti da Okinawa fino alla Sardegna aspettavano trepidanti a Edimburgo le ore 7.30 di mattina, quando tutti i voti, dalle isole più sperdute al centro di Glasgow, sarebbero stati contati. Già un'ora prima però Salmond ammetteva la sconfitta. Come è possibile che la campagna per il Sì sia arrivata così vicina alla vittoria?

Le premesse non erano rosee, e l'Snp ha già mancato l'obiettivo in passato: nel 1979 la proposta per un’assemblea deliberativa scozzese veniva affossata dall’insufficiente affluenza dei votanti (32,9% contro il richiesto quorum del 40%). La Scozia ha inoltre un passato unionista: il 1° partito del paese è stato, fino agli anni Cinquanta, lo Scottish Unionist Party.

Il risultato comunque straordinario dell’Snp è dovuto a un mix sapiente di abilità politica, diffusa insoddisfazione verso la politica tradizionale e una campagna inclusiva e non nazionalista nel senso tradizionale del termine. A differenza del Better Together, formato da Labour, Tory e Liberal per l’Unione, la Yes campaign ha puntato sulla penetrazione locale, mettendo sul campo numerosi volontari che coprivano le aree più sperdute della Scozia, dalle Ebridi ad Aberdeen.

L’Snp ha permesso a movimenti e partiti di supportare la causa indipendentista senza dover necessariamente sostenere il Partito nazionalista scozzese, il quale non ha avuto la "proprietà" esclusiva della mobilitazione, pur essendone la componente più importante. Ciò ha permesso l’inclusione di gruppi di sinistra, come il Common Wheel, i Greens, ma anche outsider di partiti che supportavano l’Unione, come nel caso dei Labours for Independence.

L’idea, o forse l’illusione, era quella che nel marzo 2014 ha espresso Alison Johnstone, leader dei Greens insieme a Patrick Harvie: una volta raggiunta l’indipendenza, ognuno proporrà il suo modello di Stato. Da qui è nato lo sforzo congiunto di parti che in comune hanno ben poco e che sostengono chi un modello norvegese, chi uno danese, chi lo sfruttamento del petrolio, chi quello delle risorse rinnovabili su base locale.

L’inclusione non è stata concepita solo a livello politico, ma anche sociale. In questo la lungimiranza dell’Snp è andata oltre il referendum stesso. Facendo in modo che potessero votare anche i giovani dai 16 anni in su e i cittadini europei residenti in Scozia, la base del consenso è stata estesa a gruppi che hanno largamente supportato la causa del Sì.

I votanti tra i 16 e i 17 anni, infatti, si sono espressi per il 71% a favore del Sì, mentre gli over-65 si sono arrestati al 27%. Nulla di stupefacente dato che la Yes campaign gestiva il più grande gruppo di giovani artisti per l’indipendenza, il National Collective, che ha chiuso con un grande evento, lo Yestival, al quale non sono mancate le celebrità. Anche gli immigrati sono stati inclusi nel progetto: nessun equivalente degli "Italians for Yes" o dei "Polish for Yes" era invece presente nello schieramento unionista.

L'Snp ha replicato, estendendolo, il concetto che lo ha portato al potere: dare una risposta migliore, e scozzese, ai problemi della Scozia. Un’idea che aveva lanciato il partito nazionalista scozzese a Westminster con la delusione della Thatcher prima e del Labour di Blair dopo. Nel 2014, questo approccio è stato la risposta ad alcuni temi che il parlamento britannico non aveva preso in giusta considerazione. Due per tutti: l’immigrazione e l’Unione Europea, dove peraltro l’Inghilterra (che ha registrato il successo dell’antieuropeista Farage) si contrappone a un Snp dichiaratamente pro-Ue.

Last but not least il carisma di Alex Salmond, un politico con vent’anni di esperienza da leader di partito e una grande capacità comunicativa nei confronti del popolo scozzese, come ha provato la lettera inviata ai votanti il giorno prima del referendum. Un primo ministro dotato di una certa scioltezza e humor, tanto da nominare per la famigerata Ice Bucket Challenge David Cameron, durante uno dei momenti più caldi del dibattito sul referendum. Un invito a una doccia scozzese cui il molto più inamidato Cameron non rispose.

Il buon risultato della campagna per il Sì sta anche nelle mancanze degli unionisti e dei loro leader. Se Alistair Darling, capo del Better Together, non riconosceva il carisma di Salmond, in Scozia la popolarità di Cameron era ai minimi storici, tanto da fargli perfinoriconoscere pubblicamente di non avere l'appeal necessario a sostenere la causa unionista.

Il problema del Better Together non è stato solo nei vertici, ma anche nell’approccio. Come sostiene Iain MacWhirter nel suo libroRoad to Referendum, il messaggio unionista è stato sostanzialmente disfattista e ha bollato gli scozzesi come "too weak, too stupid" per arrivare all’indipendenza. In effetti Darling ha posto l’accento più sui pericoli di una vittoria del Sì che sui benefici dell’Unione.

Gli argomenti del Better Together erano spesso di questo tipo: l’indipendenza sarebbe stata troppo costosa, le imprese sarebbero fuggite dalla Scozia che non avrebbe avuto le risorse per essere indipendente. Che ciò fosse vero non ci sono molti dubbi. Ma questa è stata la peggiore risposta a una popolazione attratta dall’indipendenza perché stufa dell'incapacità propositiva della politica tradizionale.

L’indipendenza, in effetti, avrebbe avuto delle ripercussioni negativeprobabilmente superiori ai benefici, per quanto sia molto complicato a dirsi. La Scozia avrebbe dovuto sopportare costi ingenti, come quelli per ridislocare i sottomarini nucleari (dai 3 ai 20 miliardi di sterline), approntare le strutture diplomatiche (non era sicuro che il Regno Unito avrebbe concesso le proprie), chiedere l'ammissione alla Nato e all'Ue.

Il pericolo di fuga di capitali sarebbe stato concreto con Standard’s Life, la Royal Bank of Scotland e i Lloyd’s pronti a minacciare uno spostamento dei propri uffici scozzesi nel Regno Unito già prima del referendum. Inoltre, il fatto che la Scozia continuasse a usare la sterlina avrebbe comportato la rinuncia alla propria politica monetaria, configurando il paese come un mero azionista della Bank of England.

Non che il Regno Unito o l’Ue avrebbero navigato in acque migliorinel caso di una Scozia indipendente. La Gran Bretagna, perso il più grande sostenitore della permanenza in Europa tra le sue nazioni, forse non sarebbe riuscita a contenere i nazionalisti del Partito per l'indipendenza del Regno Unito (Ukip) alle elezioni del 2015. Il referendum per l’uscita dall’Ue sarebbe diventato una realtà e i partiti tradizionali britannici si sarebbero scontrati con la crisi più grave di sempre.

L’Europa avrebbe invece affrontato l’euforia degli indipendentisti in tutti gli Stati membri, con conseguenze imprevedibili. Non è successo nulla di simile: Cameron non si è dovuto dimettere (ma sosteneva che non l’avrebbe fatto comunque) e la regina "ha fatto le fusa".

In fin dei conti, perché la Scozia non è diventata indipendente?Complicato a dirsi, sebbene il risultato non fosse del tutto inaspettato. Il Sì non partiva da una situazione vantaggiosa: gli indipendentisti dovevano convincere una nazione storicamente unionista a puntare su un’opzione molto rischiosa. Se la sapiente politica della Yes campaign e dell’Snp è riuscita a far guadagnare terreno alla causa indipendentista, il Better Together ha messo a segno due colpi importanti poco prima del voto.

Il primo è il cosiddetto "Nhs Leakage", la diffusione cioè di un documento secondo il quale l’Snp avrebbe apportato tagli consistenti alla sanità (National Health Service) dopo l’indipendenza, per coprire un buco di 400-450 milioni di sterline. Ciò ha avuto un consistente impatto sul pubblico scozzese, molto attento ai temi del welfare. Il rischio di privatizzazione è infatti al centro del dibattito politico nel Regno Unito da tempo e l’incertezza sul futuro economico di una Scozia indipendente ha contribuito ad amplificare l'argomento.

Il secondo punto è il cosiddetto "Devo max pledge", il documento firmato da David Cameron, Ed Miliband e Nick Clegg - capi dei tre principali partiti britannici - in cui si garantisce ulteriore devolution alla Scozia in caso di vittoria del No. Nel testo si promette di mantenere la corrente formula di redistribuzione della spesa pubblica (Barnett formula), di assegnare maggiori poteri al parlamento scozzese e di lasciare a Edimburgo le decisioni riguardo al proprio sistema sanitario nazionale.

Una mossa politica che in realtà si ispirava a quello che lo stesso Alex Salmond aveva proposto come terza opzione del referendum, ma che Cameron aveva rifiutato. Non va dimenticato poi l’intervento della regina, che poco prima del referendum invitò gli scozzesi a pensare molto bene al loro futuro. Un invito da non sottovalutare in un paese che appoggia fortemente la monarchia, tanto che lo stesso Salmond insisteva sul fatto che avrebbero mantenuto la regina come capo di Stato (magari con meno fusa).

Ad oggi l’Europa non ha al suo interno un paese in più, ma questo non vuol dire che il terremoto scozzese si sia concluso. Ci saranno conseguenze a breve e lungo termine che né la Scozia, né il Regno Unito nè l'Europa possono evitare di prendere in considerazione.

La prima si troverà compressa tra il risultato del referendum e la tempesta del post-Salmond. Con le dimissioni del primo ministro inizia una fase di successione che, anche se vedrà probabilmente la vice Nicola Sturgeon al suo posto, non è né semplice né scontata. Già la maggioranza in parlamento dell’Snp si è assottigliata, con un parlamentare dimissionario. Ciò in un momento in cui il partito deve cercare di non buttare al vento quanto conquistato in due anni, consolidando i voti ottenuti dal Sì - soprattutto quelli sottratti al Labour. Si tratta di concretizzare la promessa fatta nel "Devo max pledge" dai tre maggiori partiti britannici. Decisamente non semplice.

I problemi più grandi, tuttavia, saranno quelli che il Regno Unito si troverà ad affrontare sotto forma di questione inglese, elezioni 2015, referendum sull'Ue e Ukip. In realtà, il vero dilemma è la crisi di identità che Londra sta affrontando e di fronte al quale il referendum scozzese l’ha posta. Ue o Usa, piccolo o grande paese, frontiere aperte o chiuse, assetto federale o unitario. 

Inoltre la questione inglese - cioè l'assenza di un parlamento per l'Inghilterra - va risolta in fretta. Mancando della rappresentazione regionale che ha la Scozia, le questioni esclusivamente inglesi vengono discusse a Westminster, dove anche gallesi e scozzesi possono dire la loro. Un tema importante, se si considera che il leader dello Ukip Nigel Farage se ne è appropriato immediatamente, spostando la discussione sul piano del nazionalismo inglese: lui stesso ha dichiarato, con linguaggio non oxfordiano, che gli inglesi "have been suckers for too long" (potremmo tradurlo molto eufemisticamente con "sono stati passivi troppo a lungo").

Nodi che, insieme al referendum per l’uscita dall’Ue che lo stesso Farage chiede con ostinazione, verranno al pettine con le elezioni del 2015. Una scadenza su cui la vittoria del No ha un effetto positivo, ma su cui pesa un’insoddisfazione generale dell’elettorato britannico, dimostrata dal 45% dei consensi ottenuti dalla causa indipendentista.

Se Londra piange, Bruxelles non ride. Il No ha vinto e José Barroso ha tirato un sospiro di sollievo rispetto al cataclisma che avrebbe potuto travolgere l’Europa. Il fatto che il Sì sia arrivato così vicino alla vittoria e che la copertura mediatica sia stata così elevata ha però riportato in prima pagina le esigenze degli indipendentisti di tutta Europa.

Su molte tensioni internazionali sventola la bandiera dell'indipendenza: in Crimea, in Belgio dove l’alleanza indipendentista Nva è il primo partito, in Catalogna dove un milione e ottocentomila indipendentisti hanno sfilato a Barcellona pronti al prossimo referendum (consultivo) per l’indipendenza da Madrid. La vittoria del Sì avrebbe fatto esplodere la bomba dell’indipendentismo, il No l’ha semplicemente lasciata lì, inesplosa.

Il referendum ha avuto un grande merito: quello di dimostrare che anche argomenti politici controversi, come il nazionalismo e l’indipendenza di una nazione, possono essere discussi con fair play e tranquillità. Gli unici scontri che il post-referendum ha registrato sono stati quelli del 19 settembre in George Square a Glasgow: nessun ferito e solo un po’ di tensione, provocata soprattutto dagli unionisti orangisti, che tutta la Scozia conosce per essere una minoranza. Il dibattito tra le due parti è stato civile forse come mai nel passato europeo.

Pur giocandosi probabilmente l’unica possibilità per l’indipendenzada qui ai prossimi trent’anni (almeno), la Scozia ha mantenuto un notevole autocontrollo anche quando la discussione era tesa, come nel caso del dibattito sul sistema sanitario nazionale. In quell’occasione Salmond stesso non è andato oltre il chiamare "scaremongers" (allarmisti) i propri avversari.

L’Europa ha una lezione da trarre: i problemi legati all’insoddisfazione nei confronti della politica tradizionale ci sono. Il referendum scozzese dimostra che si possono discutere con serietà e democrazia. Alex Salmond ha commentato la vittoria del No invitando a non concentrarsi "sulla distanza che ci ha separato dall'arrivo, ma su quella che abbiamo percorso". Può essere un consiglio valido per tutti.

Lorenzo Colantoni, Arrivederci Indipendenza: Scozia, Regno Unito e Ue dopo la vittoria del No, "Limes", 26-09-14.

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