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mercoledì 17 settembre 2014

Scozia-Regno Unito: aspettando i risultati del referendum.

In attesa dei risultati referendari, cerchiamo di fare il punto sulla situazione.

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Per l’élite politica britannica sarà una settimana da nervi a fior di pelle, da mangiarsi le unghie. Potremo veramente svegliarci la mattina del 19 settembre con gli elettori scozzesi che al referendum del giorno prima scelgono l’indipendenza, con la prospettiva di essere una Bretagna Meno Grande, di un Regno Unito ridotto? Fino a una settimana fa sembrava improbabile.  
Ma ora i sondaggi mostrano che il risultato elettorale è in bilico.  
Naturalmente i sondaggi possono rivelarsi fuorvianti. Il referendum si farà sull’identità nazionale, sul patriottismo, su una decisione che, se vincesse l’indipendenza, sarebbe irreversibile. Dunque, un tema emotivo e volatile: la reale prospettiva di una separazione potrebbe spaventare parte degli elettori e spingerli a votare contro. Oppure, l’idea che l’indipendenza da questione teorica stia diventando una prospettiva reale spingerà più gente ad abbracciarla e votarla. L’esito è imprevedibile. 

In qualunque modo vada il voto, esso cambierà la Gran Bretagna. Sotto la pressione dei sondaggi dell’ultima settimana i tre partiti politici nazionali – il Labour, i conservatori e i liberal-democratici – sono corsi a fare alla Scozia proposte di maggiore autonomia, soprattutto in materia fiscale e di spesa pubblica. Offerte valide anche se scegliesse di restare nel Regno Unito. Queste riforme, per quanto maturate ormai da tempo, potrebbero comunque non fermarsi alla Scozia: anche altre parti del Regno Unito chiederanno maggiore autonomia, spingendo il Paese a un futuro più federale nella forma.  
Prima del voto si tratta di rispondere a tre domande. Primo: come la Scozia è arrivata al punto di prendere in considerazione seriamente la secessione dal Regno Unito? Secondo, se secede quali saranno le conseguenze per la Bretagna? Terzo, quale sarà l’impatto sul resto dell’Unione Europea? 

La prima domanda richiede una risposta perché per tanti versi il desiderio scozzese di indipendenza è strano. Il Regno Unito non è in crisi, anzi: nei 300 anni di unione tra Inghilterra e Scozia ci sono state crisi economiche e politiche ben peggiori di quella iniziata nel 2008, e quindi non c’è nessuna spiegazione di emergenza nazionale. Né esiste alcun reale sentimento di amarezza, rimpianto o sensazione di essere stati maltrattati, a differenza di quanto potrebbero provare la minoranza cattolica in Irlanda del Nord o, per esempio, i catalani in Spagna. 
La risposta è che il movimento verso l’indipendenza è stato lungo e graduale. A cominciare dalla percezione che, con la fine della Guerra Fredda, sopravvivere come Paese piccolo con (nel caso della Scozia) appena 5,3 milioni di abitanti, appare sempre meno rischioso e più fattibile. Se la Slovenia, la Slovacchia, la Lettonia e la Lituania possono farlo, perché non la Scozia? 

Il movimento è stato alimentato anche dal cambiamento dell’economia britannica dalla manifattura verso i servizi, accelerato dalle rigide politiche anti-inflazionistiche e anti-sindacali di Margaret Thatcher. Questo cambiamento ha colpito le vecchie regioni industriali, come la Scozia, con i suoi cantieri, le sue acciaierie e miniere. La Scozia è diventata più di sinistra del resto del Regno Unito, e si allontana politicamente ancora di più ogni volta che a Londra si insedia un governo a guida conservatrice.  
Ma soprattutto la diffusione del sentimento indipendentista è da incolpare all’istituzione del Parlamento scozzese voluta dall’allora primo ministro Tony Blair nel 1999. Aveva deciso di delegare poteri alla Scozia e a Galles, riconoscendo così la rivendicazione di una identità scozzese separata, ma anche accelerandone la formazione. La conseguenza è stata la nascita di un mondo politico e mediatico scozzese separato, che ha solo accentuato le differenze tra Londra e Edimburgo.  

Passiamo alla seconda domanda: quale sarà l’impatto sul resto del Paese. La risposta aritmetica vorrebbe che fosse ridotto, in quanto la nostra popolazione scenderebbe solo da 63,3 a 58 milioni di abitanti, e la caduta del Pil sarebbe in proporzione ancora minore. Ma questo calcolo sottovaluta le conseguenze psicologiche e politiche, che invece sarebbero cospicue.  
Si tratterebbe certamente di una umiliazione nazionale. La secessione della Scozia renderebbe inevitabile la prospettiva che anche un’altra piccola nazione del Regno Unito, il Galles, cominci a contemplare l’indipendenza, e solleverebbe nuovi interrogativi sul futuro dell’Irlanda del Nord. A lungo termine una tale riduzione della nazione renderebbe meno possente la voce britannica nel mondo, e potrebbe perfino mettere a rischio il seggio del Paese nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. 

In una prospettiva più breve, la secessione getterebbe la politica britannica nel caos. Probabilmente il primo ministro David Cameron sarebbe costretto a dimettersi, per venire sostituito da un politico più di destra e ancora più euro-scettico. Nel maggio 2015 ci saranno elezioni politiche, mentre il processo di secessione scozzese si concluderebbe nel migliore dei casi per il 2016, sollevando domande che restano senza risposta, come per esempio quella che la Scozia deve ancora votare per il parlamento nazionale. Sulla carta, l’indipendenza scozzese a Westminster dovrebbe colpire i laburisti e aiutare i conservatori, in quanto il Labour perderebbe 40 deputati e I liberal-democratici 11, mentre i conservatori solo uno. Ma l’esito elettorale sarebbe tutt’altro che scontato, perché che l’indipendenza della Scozia potrebbe cambiare il comportamento politico in modo imprevedibile.  

La maggiore imprevedibilità però riguarda la posizione britannica verso l’Ue. Gli elettori scozzesi sono leggermente più favorevoli all’Unione Europea di quelli inglesi, e la secessione della Scozia potrebbe rendere più probabile l’uscita di Londra dall’euro nel 2017. Ma per quanto queste prospettive fanno pensare a una Bretagna – o piuttosto, un Inghilterra – più piccola, meno potente, umiliata, in realtà potrebbe rivelarsi vero il contrario. Facendo sentire la Bretagna ridimensionata meno capace di stare per conto proprio questo voto potrebbe spingere gli elettori inglesi di nuovo verso l’Europa. Se fosse così, nel lungo termine la principale vittima politica dell’indipendenza scozzese potrebbe rivelarsi il UK Independence Party di Nigel Farage. 

Infine, la terza domanda: gli effetti sull’Europa. Se la Scozia secede, sarà un «divorzio di velluto», come la separazione tra Slovacchia e Repubblica Ceca all’inizio degli Anni 90. E questo certamente spingerà altre regioni a contemplare l’indipendenza, soprattutto se la Scozia diventerà in tempi rapidi membro dell’Ue. Ovviamente lo vorrà la Catalogna, ma se parlassimo della Baviera? 
Paradossalmente, questo rende ancora più importante la preservazione e la riforma dell’Unione Europea. Più ci frammentiamo, più avremo bisogno di istituzioni di governo sovranazionali che ci uniscano. Dalle divisioni potrebbe venire fuori l’unità. 
Bill Emmott, Che cosa succede se la Scozia se ne va, "La Stampa" 17-09-14.

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Elisabetta resterà regina?  
Gli indipendentisti vogliono mantenere la monarchia, e un voto favorevole non comporterebbe un decadimento della regina: l’unione delle corone risale al 1603, quella delle nazioni al 1707. Ma nel futuro potrebbe esserci un referendum per decidere se la Scozia sovrana debba essere una repubblica o una monarchia. Elisabetta, neutrale per dovere costituzionale anche se legata alla Scozia, non si pronuncia. 

La moneta sarà la sterlina?  
Gli indipendentisti si sono impegnati a mantenere la sterlina, sebbene i tre principali partiti di Londra abbiano dichiarato che una Scozia indipendente non potrebbe continuare a condividere la moneta con il resto del Regno Unito. Il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney ha affermato che «un’unione monetaria è incompatibile con la sovranità». Altre opzioni sono l’euro o una nuova moneta. 

C’è il rischio di un crac?  
Gli economisti prevedono un periodo di incertezza e il «Financial Times» si è schierato contro l’indipendenza. La Royal Bank of Scotland e LLoyds hanno preparato piani per trasferire la sede dalla Scozia a Londra. Alcuni analisti prevedono un calo della sterlina e la banca d’affari Goldman Sachs parla di «conseguenze negative» per entrambe le economie. Ma gli indipendentisti parlano di «intimidazioni». 

Chi controllerà il petrolio?  
Secondo una stima accettata da entrambe le parti, circa il 90% del petrolio del Mare del Nord sarebbe in acque territoriali scozzesi, e dunque sotto il controllo di Edimburgo. Per i nazionalisti, il petrolio garantirà entrate fiscali pari a 57 miliardi di sterline entro il 2018 e sarà estraibile per altri 30-40 anni. Il «fracking» potrebbe aumentare la quantità di greggio recuperabile. Ma gli unionisti notano che i prezzi sono volatili. 

Cosa cambierà a Londra?  
I 59 deputati «scozzesi» dovrebbero abbandonare Westminster. Il voto scozzese è tradizionalmente laburista (attualmente solo uno dei seggi è dei Tories), e dunque i conservatori sarebbero avvantaggiati nelle future elezioni. Secondo elaborazioni della stampa inglese, alle politiche del 2010, senza il voto scozzese David Cameron avrebbe preso la maggioranza e non avrebbe dovuto creare un governo di coalizione. 

Che sarà delle armi nucleari?  
Gli indipendentisti vogliono la rimozione delle armi nucleari dalla base di Faslane, dove sono stanziati i sottomarini che compongono il deterrente nucleare britannico, e ritengono che debba essere una delle prime questioni da affrontare in una Scozia sovrana. Ma secondo Londra i costi di uno spostamento sarebbero elevatissimi e la ricollocazione in un luogo adatto richiederebbe molto tempo. 
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Bastano due passi nella brughiera di Culloden Moor, sterpi, erba secca, acquitrini fradici sotto il cielo grigio e la nebbia, per capire quanto avesse ragione, quell’alba lontana del 16 aprile 1746, il generale Murray a consigliare prudenza al romantico Bonnie Prince Charlie, pretendente Giacobita al trono di Scozia. Il principe, nato a Roma, attaccò invece sul fiume Nairn, senza criterio, il Duca di Cumberland, che lo attese con l’artiglieria, sterminò i ruvidi volontari dei clan, fece a pezzi i feriti riversi sulle pozzanghere che adesso i turisti scavalcano in silenzio con gli stivaloni di gomma. 

Il Duca si guadagnò il soprannome di Macellaio, gli 8000 inglesi ebbero 300 morti, i 7000 scozzesi 2000, il sogno di indipendenza stroncato, almeno fino a giovedì prossimo, 18 settembre 2014. 

Basta guidare per le contorte strade scozzesi, 259 chilometri fino alle mura di Edimburgo, per sentire quanto i 307 anni di unione tra Scozia e Inghilterra, la vita stessa del Regno Unito e quel che rappresenta, cultura, civiltà, economia, tradizioni, siano a rischio, oppure già spezzati per sempre, qualunque sia l’esito del voto tra «Yes» e «No» all’indipendenza, che i sondaggi danno 50-50, mentre le scommesse pagano la vittoria del «No» 1/4 e quella del «Sì» 11/4. La bozza della nuova Costituzione è già scritta, il primo articolo recita solenne «In Scozia il popolo è sovrano», sottintendendo che nel Regno Unito no. Ma se cercate di capire, come troppi fanno, la posta in gioco in questo storico giovedì guardando alla Storia, le battaglie, la sconfitta di Culloden e la vittoria scozzese di Bannockburn con Robert the Bruce, le gesta di William Wallace, il Braveheart di Mel Gibson, se credete che il voto si svolga tra cornamusa, kilt, tartan e clan, prendete un abbaglio. 

Il referendum scozzese parla del nostro futuro non del passato, un passato popolato da miti, fantasmi e invenzioni, la prima biografia «storica» di Wallace di Blind Harry data due secoli dopo la sua morte, e i colori dei tartan orgogliosi dei clan non sono ancestrali, ma disegnati a tavolino da una coppia di furbi sarti, i fratelli Sobieski Stuarts, che finsero di averli ritrovati in manoscritti antichi. Il referendum ha sulla scheda la domanda secca «Deve la Scozia essere paese indipendente?» ma cela altre verità. «Odiate ancora Lady Thatcher, la sua riforma del welfare state, la deindustrializzazione, l’economia di servizi e finanza?»; «Avete paura che la globalizzazione distrugga lo stato sociale scozzese, volete difendere il posto stabile, mutua, assicurazione sanitaria, scuola e spesa pubblica?», e infine «Volete ritirarvi dal mondo, non curarvi di Ucraina, Isis che ha ucciso un volontario scozzese, esercito, testate nucleari?».  

Fuori dal Parlamento di Edimburgo, un edificio sperimentale dell’architetto Eric Miralles, con tanto di lance simbolo icona della resistenza a Bannockburn, gli attivisti dello «Yes», tanti, e i pochi e guardinghi del «No», sanno bene cosa conta per gli elettori. Da Londra arriva il bus dei sindacati laburisti, rosso e lucente, invoca il «No», il Labour Party perderebbe con la Scozia 40 seggi a Westminster, i Conservatori del premier Cameron forse solo uno. Ma lo sgangherato camioncino del «Sì», di solito uso ai trasporti di un ferramenta, ribatte con lo slogan rudimentale «Mai più i conservatori al governo». 

La grande illusione del Partito Nazionale Scozzese di Alex Salmond, premier a Edimburgo, è tutta qui. L’indipendenza si reggerà sul petrolio del Mare del Nord, la Scozia diverrà una Norvegia che produce whisky, la ex Gran Bretagna accetterà di dividere il debito pubblico e le ricchezze, poi l’Europa aprirà le porte, mentre, rabbiosa, Londra lascerà l’Unione. L’esercito del tartan avrà 4700 soldati, di cui appena 1700 in grado di combattere. Le testate nucleari britanniche lasceranno la base sul Clyde e la nuova costituzione metterà al bando ogni ordigno atomico. La Nato obietta? Nei comizi del «Sì» non ci sono dubbi: l’Europa, secondo Salmond, aprirà le porte a Edimburgo, nonostante il no minacciato dagli spagnoli che hanno paura per l’addio della Catalogna, e altrettanto farà la Nato. Cresciuto a East Fife, cuore scozzese, l’editorialista del «Financial Times» John Lloyd, dissente amareggiato «Una serie di azzardi senza sicurezze. Salmond spiega che tutto andrà bene, ma il mondo non avrà tenerezza per una Scozia piccola e debole». 

David Greig, autore del popolare musical Charlie and the Chocolate Factory, noto in Italia per «Midsummer», tradotto da Masolino d’Amico, è la prova vivente che il passato remoto non c’entra, si vota sul futuro. Su Twitter Greig ha creato una commedia in 140 battute, @yesnoplay, in cui una moglie e un marito dibattono sul voto. Il gioco è brillante, ma ha sempre la meglio la tesi della bonomia separatista, Greig spiega che la nuova Scozia andrà d’accordo con tutti, «si leverà infine gli occhiali inglesi», animata da «una palla di energia». «Si tratta di riforme democratiche» secondo lo scrittore. E la Costituzione in scrittura echeggia i buoni sentimenti, gli scozzesi avranno «diritto a un ambiente salubre», alla «biodiversità» e il nuovo stato combatterà «i cambi climatici». Con orgoglio che brilla negli occhi i ragazzi dello «Yes» mi spiegano «Solo tre paesi hanno nella Carta Costituzionale l’impegno a battersi contro l’effetto serra» e li elencano serissimi «Ecuador, Repubblica Dominicana, Tunisia». 

La Carta sembra per ora un tema di liceo colmo di speranze, avranno diritto alla cittadinanza i cittadini britannici residenti oggi in Scozia, i residenti di origine nord-irlandese, i residenti con passaporto Ue e chi ha passaporto estero, ma genitori, o forse antenati, scozzesi. Tornerà a casa la diaspora lontana? Ho provato a ripetere l’esperimento di Greig al pub storico di Abbotsford, battezzato dalla casa di campagna cara allo scrittore scozzese Walter Scott. Grazie al barman Robert Wilson i clienti hanno detto la loro, e il sondaggio tra birra e Scotch è netto «Chi vota Sì viene con il distintivo sulla giacca o la camicetta da mesi, chi vota No è incerto, sta zitto e aspetta». Il premier Cameron, il liberale Clegg, il laburista Miliband, l’ex premier Gordon Brown, scozzese laburista che si batte come un leone per il No, contano su chi - per non litigare al bar- resta in silenzio, ma nel segreto dell’urna ascolterà il consiglio della Regina Elisabetta II e rifletterà attento. Con i cittadini scozzesi votano anche i residenti. «I ragazzi italiani che vivono qui - spiega un giovane di Potenza - sono divisi, ma onestamente ne sanno poco». Alle urne anche i sedicenni, e saranno una sorpresa. 

Perché l’astuzia populista di Salmond, la Carta delle Buone Intenzioni e la passione dei militanti come Greig non contano sulla realtà. La finanza, le banche, le aziende, le assicurazioni emigreranno a Sud, verso Londra e il clima pro business. La sterlina scozzese perderà peso. Se il divorzio con gli inglesi sarà acido Londra renderà difficile la strada dell’Europa. I supermercati aumenteranno i prezzi in un mercato più piccino come annunciano John Lewis, Asda, Marks and Spencer, i francobolli della Royal Mail costeranno di più. La finanziaria Black Rock prevede che i tassi di interesse della Scozia Nazione saranno peggiori di quelli del Regno Unito, fino a un punto e mezzo l’anno. Le minacce degli estremisti «Nazionalizzeremo la Bp e le altre aziende se si mettono di traverso», la simpatia di Salmond per Putin «con lui la Russia è rispettata» hanno già aperto una fuga di capitali che, se il «Sì» vince, diventerà rotta. Come a Culloden. 
Gianni Riotta, "Petrolio e stato sociale", Edimburgo sogna un "futuro norvegese", "La Stampa, 17-09-14.

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Scozia-Regno Unito: le due nazioni a confronto, "La Stampa", 17-09-14.

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V. anche:
Francesco Zaffarano, Ecco la mappa di tutti gli indipendentisti d'Europa, "La Stampa", 17-09-14.

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