Sembrerebbe finito il macabro giallo della scomparsa di 43 studenti messicani. E non certo con un lieto fine. Sembrerebbe, secondo la versione ufficiale della Procura Generale della Repubblica, che gli studenti siano stati fermati, secondo le ordini del sindaco della città di Iguala (ora in manette dopo una breve latitanza), da agenti della polizia locale. Sembrerebbe che questi agenti li abbiano consegnati al gruppo di narcos «Guerreros Unidos». Sembrerebbe che questi criminali li abbiano uccisi per poi bruciare i loro cadaveri e spargere le ceneri in un fiume vicino. Fine della storia. Ma la Procura non ha offerto altre prove che le testimonianze di tre dei presunti assassini (sembrerebbe abbiano confessato). I famigliari dei ragazzi non ci credono. E con loro centinaia di migliaia di messicani.
Ci sono troppe incertezze, troppe domande ancora senza risposta, a cominciare dall’ordine del sindaco: fermare gli studenti, arrestarli, spaventarli, consegnarli ai narcos, ucciderli? Non si sa. Si sa, invece e da tempo, che questo sindaco (e sua moglie) avevano rapporti con alcuni gruppi criminali. E quindi, si chiedono in tanti, perché non è stato fermato prima? Durante più di un mese, le ricerche dei giovani non hanno prodotto alcun risultato positivo, soltanto il ritrovamento di altre fosse comuni con altri resti di altre persone. Ma non erano gli studenti scomparsi, che in futuro sarebbero diventati maestri nelle scuole rurali del paese. E poi, un sacerdote aveva saputo molti ma molti giorni prima delle autorità che gli studenti erano stati bruciati. Come mai? Secondo padre Alejandro Solalinde, il governo avrebbe cercato di guadagnare del tempo, inseguendo certi indizi fantasmagorici, per placcare le proteste. In fatti, sembrerebbe proprio così. Nel migliore dei casi, e concedendo il beneficio del dubbio, sembrerebbe che le più alte sfere dello Stato non abbiano alcuna possibilità di lottare contro la corruzione e la violenza che da parecchi anni dilagano nel paese. Nonostante, quindi, la versione ufficiale della Procura sull’accaduto, la gente continua a chiedere risposte valide, certezze.
Il Messico, si sa, ha una lunga tradizione di “sembrerebbe”, di storie che in tanti altri paesi del mondo avrebbero fatto crollare governi, storie mai del tutto chiarite. Ricordiamo solo uno tra i casi più clamorosi. Sembrerebbe che il 23 marzo 1994 uno squilibrato solitario abbia ucciso a Tijuana Luis Donaldo Colosio, candidato alla presidenza e molto probabilmente futuro presidente del Messico, durante un bagno di folla nella corsa finale della campagna elettorale. Fine della storia. Ora, invece, i messicani sembrano veramente stanchi dei dubbi, delle incertezze, dell’insicurezza e della corruzione. Sembrano anche disposti a qualsiasi cosa pur di avere risposte e soluzioni alla sterminata violenza che cancella il futuro dei suoi giovani, il futuro del paese. La rabbia sembra essere scoppiata. Il blocco di aeroporti, centri commerciali e autostrade, l’assalto alle sedi dei partiti politici e dei congressi locali, le mobilitazioni quotidiane -anche violente- in tutto il Messico, le denuncie a livello internazionale e la richiesta delle dimissioni del capo dello Stato sembrano essere soltanto l’inizio.
Pablo Lombo,
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