«Carlo Levi, per incarico de La Stampa, ha compiuto un viaggio in India. È ritornato pochi giorni fa, ed ora, in una serie di articoli, narrerà le varie tappe del suo itinerario, e dirà le sue impressioni e osservazioni sul grande Paese che, proprio in questi giorni, appare uno dei più importanti protagonisti della politica internazionale». Questo distico apparve in apertura della famosa terza pagina della Stampa, accanto a una foto del maresciallo Zukov, in precario equilibrio su un’elefantessa, durante una visita di delegati sovietici in India. Bastano queste poche parole introduttive a farci capire com’era diverso il giornalismo in un mondo in cui l’informazione viaggiava ancora lenta, in cui ci si poteva permettere di scrivere al ritorno e di pubblicare su un quotidiano un grande reportage in quattordici puntate, frutto di un mese di viaggio nella nazione che da appena dieci anni aveva conquistato l’indipendenza dagli inglesi. Il valore stava nell’approfondimento, nella capacità descrittiva e non nell’immediatezza; nessuno pretendeva di vivere in una continua diretta, in quell’infinito presente dove la notizia vale solo se è accaduta adesso e tutto viene considerato superato dopo meno di ventiquattro ore.
Il giornalismo è cambiato insieme alle abitudini di lettura, alla nostra gestione del tempo: negli anni Cinquanta la terza pagina, la cultura di un giornale, aveva un unico concorrente, il libro. Quando Levi scrive, la Rai ha un solo canale e il segnale della televisione da appena pochi mesi copre tutta l’Italia, le serate non sono saturate da centinaia di canali tv, da dvd, tablet, smartphone, corsi di cucina, di yoga e attività sportive. La terza pagina gode di una centralità assoluta nell’alfabetizzazione del lettori, nell’educazione al mondo, nella costruzione di dibattiti e nella formazione dell’opinione pubblica.
Così, quel 29 gennaio del 1957, quando Levi cominciò a raccontare la sua India, i lettori partirono con lui. La prima cosa che emerge, in una stagione in cui non venivamo ancora bombardati dalle immagini, è l’insistenza delle descrizioni minute, l’osservazione dei luoghi, delle persone, dei paesaggi, che catturano un lettore che non ha molte altre occasioni di confronto con luoghi così distanti e che viene affascinato dall’esotico. Basti la descrizione dell’ingresso nella città vecchia di Delhi come esempio: «In mezzo al crocicchio sta, come uno di quegli antichi monumenti indiani pullulanti di figure scavate nella roccia, un gregge, o meglio un groviglio di vacche disparate: grandi, piccole, bianche, grigie, pezzate, punteggiate, tigrate, macchiettate come leopardi per chissà quali infiniti selvatici incroci, gibbute, ossute, con le corna dipinte di rosa e lo sguardo, insieme mite e feroce, pieno di sacra impenetrabilità. Entriamo nel primo vicolo passando tra altre vacche sdraiate, come sacri macigni, e capre e cani, e galline, corvi, topi e scoiattoli, e siamo subito avvolti, come in un’acqua mossa e caotica, nella infinita molteplicità colorata». Una narrazione in cui emergono tutte le capacità di analisi e di disegno di uno scrittore che era anche pittore, e che aveva un religioso rispetto del dettaglio e delle sfumature. I suoi reportage sono una serie di fotografie, di affreschi sulla società indiana. [...]
Il viaggio è un successo di pubblico, tanto che la direzione del giornale – allora nelle mani di Giulio De Benedetti – due anni dopo, tra il novembre del 1959 e il gennaio del 1960, pubblica un nuovo viaggio di Carlo Levi, questa volta in Cina. Ancora una volta abbondano le descrizioni, come quella della piazza Tienanmen e della Città proibita, che riescono a stupire perché non erano negli occhi dei lettori, che non avevano visto le diapositive degli amici di ritorno dalle vacanze, le foto su Instagram o L’ultimo imperatore di Bertolucci.
Eppure il senso del cambiamento, delle distanze che si accorciano, è già presente in Levi che all’arrivo a Pechino direttamente da Mosca si interroga: «Sono dunque finite le distanze? Un viaggio a Pechino è diventato il volo di un giorno. Non per questo il vedere e il comprendere diventano più facili: il lento passaggio di una volta attraverso terre e paesi preparava al nuovo diverso, e permetteva di lasciare dietro di sé i pensieri di prima, di essere aperti e disponibili a una realtà faticosamente e lentamente raggiunta: di diventare, come dovrebbe essere il viaggiatore e il poeta, come una spugna asciutta e vuota che può tutta riempirsi delle acque dove è immersa, per riversarle poi agli altri che sono rimasti ad aspettare. Il volo troppo veloce non permette questa liberazione dal passato».
Il viaggio in Cina è però reso più difficile dalla realtà di un paese con un regime comunista che non ha certo la tradizione giornalistica britannica e la libertà di movimento trovata in India, tanto che il peso della propaganda affiora spesso nel racconto e la descrizione del mondo dei contadini, centrale in tutto il lungo reportage, non regge all’esame della storia. Levi visita le campagne cinesi nei mesi centrali del «Grande balzo in avanti», il piano economico voluto da Mao per industrializzare e modernizzare il paese attraverso le Comuni del popolo, e ne resta poeticamente affascinato. È colpito dallo sforzo – che ritiene spontaneo e convinto – di riorganizzazione delle campagne, di far marciare accanto agricoltura e industria, di far funzionare piccole fornaci per il metallo in ogni piccola comune, e registra soddisfatto le assicurazioni sulla fine della fame e della carestia. Ma siamo alla vigilia della Grande Carestia del 1960, che farà decine di milioni di morti in Cina, mostrando al mondo e consegnando alla Storia i limiti drammatici di una pianificazione insensata e folle.
Resta in queste pagine di Levi la testimonianza di un mondo, del suo percorso storico e culturale, un documento con cui confrontarsi. In un tempo che sembra dimenticare il valore della lentezza e della profondità è questo, certo, un esempio da recuperare.
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“Buongiorno, Oriente”
Esce domani per Donzelli Buongiorno, Oriente (pp. 256, € 24), un volume che raccoglie i reportage dall’India e dalla Cina realizzati da Carlo Levi tra il 1957 e il 1959 per la terza pagina della Stampa. Scrittore e pittore (accanto al titolo un autoritratto del 1945), intellettuale di spicco dell’antifascismo, Carlo Levi (nato a Torino nel 1902 e morto a Roma nel 1975) tra il 1935 e il 1936 fu condannato dal regime al confino in Lucania: da quell’esperienza nacque il celeberrimo Cristo si è fermato a Eboli. In questa pagina anticipiamo la prefazione al volume Donzelli scritta da Mario Calabresi e un brano di un reportage pubblicato sulla Stampa del 1° marzo 1957
Mario Calabresi, Dal nostro inviato Carlo Levi, "La Stampa", 28-10-14.
Quest'articolo ci fa capire quanto sono cambiati i tempi, ora si preferisce riassumere il viaggio di un mese in un filmato di 2 minuti per qualche
RispondiEliminaprogramma in televisione. Ma alla lettura di alcune righe mi sono reso conto di quanto sia più bello immergersi in quello che dice l'autore, tanto è
vero che mi sono immaginato nelle campagne della Cina e in mezzo alle città indiane, anche senza averle mai visitate, guidato soltanto dal testo.
E' vero anche che i tempi sono cambiati, ma a volte un salto nel passato farebbe più che bene.
Lorenzo Ferrara 4 As