Con il termine jihadismo si fa tradizionalmente riferimento al macrofenomeno del fondamentalismo islamico che, attraverso una multiforme costellazione di soggetti e raggruppamenti, promuove il ‘jihad’ contro coloro che a vario titolo sono considerati infedeli. Tale prospettiva – che ha avuto modo di consolidarsi con particolare forza dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 – riconduce pertanto il jihad ad una dimensione conflittuale spesso marcatamente brutale e violenta, che funge da base ideologica per il terrorismo di matrice islamica e che, grazie anche ad una propaganda particolarmente efficace, ha attratto nell’ultimo decennio migliaia di nuovi adepti.
Pur non rientrando tra i cinque precetti fondamentali, il concetto di jihad rappresenta un elemento centrale dell’Islam, attorno al quale sono fioriti importanti studi ed è stata sviluppata una teoria giuridica e politica. Dal punto di vista letterale, jihad può essere tradotto come ‘sforzo’, da intendersi ‘sulla via di Dio’, e chi vi è impegnato è identificato come ‘mujahid’: in tale accezione, il concetto appare semanticamente diverso dalla traduzione di ‘guerra santa’ frequentemente proposta. Secondo taluni studiosi inoltre, pur sostanziandosi nell’idea del combattimento, il jihad deve comunque intendersi in funzione difensiva, perché nel Corano è prescritto di combattere ‘coloro che vi combattono’ e di farlo ‘senza eccessi’. Tale percezione non risulta tuttavia unanimemente condivisa, e occorre precisare che alcune sure del Testo sacro oltre che diversi hadith – brevi narrazioni che riportano il pensiero e l’insegnamento del Profeta Maometto – aprono a letture più aggressive del jihad, inteso come vera e propria lotta fisica. I trattati di diritto musulmano contengono poi diverse indicazioni su come condurre la guerra, contro chi condurla e cosa fare una volta sconfitti i nemici; ed è nei testi giuridici che sono reperibili molteplici riferimenti al dar-al-Harb – la ‘casa della guerra’ dove portare avanti il jihad – contrapposta al dar-al-Islam, la ‘dimora dei credenti’.
Nonostante la sua rilevanza, al di fuori del mondo islamico il tema del jihad è rimasto a lungo appannaggio esclusivo degli studiosi. La familiarità dell’opinione pubblica occidentale – per lo meno sotto il profilo mediatico - con il jihad e con il fenomeno del jihadismo è infatti da considerarsi recente, e in gran parte riconducibile agli sviluppi storici e geopolitici successivi agli eventi dell’11 settembre 2001, quando l’Occidente colpito nei suoi massimi simboli economici (New York e le Torri Gemelle) e militari (il Pentagono a Washington) ha scoperto al suo interno una inattesa quanto preoccupante vulnerabilità. Dai richiami al jihad contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, gli Stati Uniti trassero indiscutibili vantaggi nell’ambito del conflitto bipolare; ma furono proprio quei proclami formulati da studiosi quali Abdullah Yusuf Azzam – lo stesso che nell’aprile del 1988 scrisse dello sviluppo di un’avanguardia come solida base (al-Qaida al-Subah) per costruire la società islamica anticipando la nascita di al-Qaida – a colpire gli USA nel 2001. Gli attentati al World Trade Center nel 1993, l’uccisione di decine di turisti occidentali a Luxor nel 1997 e gli attacchi alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998 avevano già messo in evidenza la sensibilità degli obiettivi riconducibili all’Occidente, e risale al 1998 la celebre fatwa in cui Osama bin Laden affermava che l’uccisione degli americani e dei loro alleati fosse un dovere per ogni musulmano. Furono tuttavia i fatti eclatanti dell’11 settembre a condurre alla percezione del terrorismo di matrice jihadista come fenomeno globale, e di rimando ad una pressoché immediata sovrapposizione concettuale di jihad e terrorismo nelle società occidentali. Similmente, la ‘guerra al terrore’ avviata dall’amministrazione di George W. Bush con l’offensiva contro il regime talebano afghano reo di proteggere Osama bin Laden, è stata accompagnata da una retorica polarizzante che, nella misura in cui tendeva a separare in modo netto il bene dal male, ha contribuito ad alimentare la percezione del conflitto come una dichiarazione di guerra contro i musulmani, percezione meno nitida nel caso afghano ma cresciuta esponenzialmente con la campagna irachena iniziata nel 2003. Sotto il profilo sociologico, una interessante tesi tende ad evidenziare come l’identificazione dell’Occidente quale nemico dell’Islam possa essere ricondotta ad un netto rifiuto della sua cultura e del ‘carico di modernità’ che la accompagna, portatore di una secolarizzazione incompatibile con le sacre verità della legge islamica; al tempo stesso, la globalizzazione è intesa come strumento di un nuovo imperialismo occidentale che mira ad esercitare il suo controllo sul dar-al-Islam.
È altresì evidente però che i precipitati della globalizzazione sono stati funzionali alla diffusione della propaganda jihadista: grazie ad un efficace uso delle nuove tecnologie e dei media, il messaggio è stato infatti trasmesso su scala globale favorendo la crescita del sostegno alla causa; inoltre, la divulgazione delle immagini delle torture commesse dagli uomini della coalizione USA ad Abu Ghraib nel corso della guerra in Iraq, ha alimentato in alcuni ambienti l’idea dell’Occidente oppressore e rafforzato l’ostilità nei suoi confronti.
Inquadrare la galassia delle forze di ispirazione jihadista esclusivamente nella prospettiva di una lotta globale contro l’Occidente sotto una struttura di comando centralizzata indicata come al-Qaida, non renderebbe tuttavia conto della complessità del fenomeno, ulteriormente accentuatasi negli ultimi anni. Proprio in riferimento ad al-Qaida, si è tradizionalmente utilizzato il concetto di network, ad indicare una struttura ramificata che non si esauriva esclusivamente nelle aree dell’Afghanistan e del Pakistan. Sui collegamenti tra ‘centro’ e ‘periferia’, sulla forza dei vincoli di affiliazione delle diverse cellule e sull’eventuale autonomia di azione di tali unità rispetto al ‘centro’ si è spesso discusso, senza peraltro giungere a risposte univoche. Il nucleo originario di al-Qaida ha subito nel corso della guerra al terrore perdite di una certa rilevanza, su tutte quella di Osama bin Laden ucciso nel corso del blitz di Abbottabad (Pakistan) nel maggio del 2011; cionondimeno le diverse ramificazioni di quello che viene identificato come il network qaidista hanno comunque dimostrato di essere operative. È il caso di al-Qaida nella Penisola Araba (AQAP), gruppo costituitosi ufficialmente nel gennaio del 2009 e responsabile di numerosi attacchi nello Yemen senza dimenticare il grande nemico americano, come dimostra il fallito attentato del 25 dicembre 2009 sul volo 253 della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit; o ancora di al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM), le cui origini sarebbero rinvenibili nella guerra civile algerina degli anni ’90 e che nel 2007 assunse tale denominazione per sancire ufficialmente la sua affiliazione ad al-Qaida. Un’organizzazione prevalentemente attiva in Algeria, Mauritania, Niger e Mali, paese quest’ultimo nel quale è stata tra i protagonisti di un conflitto destabilizzante tra il 2012 e il 2013 che ha allarmato l’Europa e in particolare Parigi, timorose della nascita di un santuario jihadista con il mirino puntato verso il Vecchio Continente. In Mali opera anche il Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO), nato da una costola di AQIM e interessato ad espandere l’azione jihadista nell’Africa Occidentale. C’è poi il fronte del Corno d’Africa, dove operano i miliziani di al-Shabaab che terrorizzano la Somalia e hanno realizzato attentati anche in Uganda e in Kenya, tra cui quello al Westgate Mall di Nairobi nel settembre 2013.
AQIM, al-Shabaab, AQAP e la stessa al-Qaida avrebbero inoltre avuto contatti con Boko Haram – che in lingua hausa significa ‘l’educazione occidentale è peccaminosa’ - organizzazione terroristica nata nel 2002, attiva in Nigeria (ma ha anche sconfinato in Camerun) e il cui nome ufficiale è Jama'atu Ahlis Sunna Lidda'Awati Wal-Jihad, che vuol dire ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e del Jihad’.
La causa jihadista interessa anche la regione nord-caucasica controllata dalla Russia: l’Emirato del Caucaso è riconosciuto come organizzazione terroristica sia da Mosca che da Washington, ha cooperato con al-Qaida e segue con particolare interesse le evoluzioni del non lontano teatro di guerra siriano, in cui interessanti orizzonti si sono aperti per il jihad. Nei vuoti lasciati dalle primavere arabe, la lotta islamista è riuscita infatti ad infiltrarsi e ad espandersi, incrementando la già notevole instabilità del Grande Medio Oriente; e se nel caos della Libia del post-Gheddafi gli scenari appaiono di difficile interpretazione, il teatro siriano e quello del vicino Iraq hanno fatto registrare preoccupanti evoluzioni. In Siria, attratti dal messaggio diffuso dai predicatori, migliaia di volontari da ogni parte del mondo – tra cui moltissimi europei – combattono il jihad contro il regime del dittatore alawita Bashar al-Assad: non più dunque la guerra contro il ‘nemico lontano’ americano e occidentale, ma quella sunnita contro il ‘nemico vicino’. Nella complessa costellazione delle forze attive in Siria, si è distinta per l’efficacia delle sue azioni Jabhat al-Nusra, anch’essa affiliata ad al-Qaida ed inserita dagli USA – pure apertamente ostili al regime di Damasco – tra le organizzazioni terroristiche a fine 2012. Nell’aprile del 2013 giunse l’annuncio della sua fusione con il gruppo iracheno dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), stabilitosi nel 2006 come successore di al-Qaida in Iraq e poi allargatosi alla Siria con la guerra civile: a dare la notizia fu il leader dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, ma Jabhat al-Nusra, pur confermando l’esistenza di rapporti tra le due forze, ribadì la sua fedeltà ad al-Qaida e alla causa siriana. L’ISIS ha tuttavia proseguito con le sue iniziative, estendendo la sua influenza su territori sempre più vasti e sconfiggendo più volte il debole esercito di un Iraq profondamente diviso dalle politiche settarie del premier sciita Nuri al-Maliki, fino alla proclamazione del califfato islamico a cavallo tra lo Stato iracheno e la Siria. I nuovi scenari mettono in guardia l’Occidente e i vicini medio orientali, preoccupati dall’avanzata di un gruppo – che si è ribattezzato semplicemente Stato Islamico (IS) – che ai proclami del jihad accompagna un progetto politico ben più definito che in passato, mirante ad incidere nel tessuto dello status quo geopolitico della regione. Un’avanzata che ha costretto i cristiani alla fuga e in cui centinaia di yazidi considerati ‘adoratori di Satana’ sono stati massacrati. Ai raid degli USA cominciati nell’agosto del 2014, l’IS ha risposto con la decapitazione degli ostaggi statunitensi James Foley e Steven Sotloff, all’annuncio del sostegno britannico ai peshmerga curdi in funzione anti-Stato Islamico, l’organizzazione ha reagito con l’uccisione di David Cawthorne Haines; in Algeria la formazione Jund al-Khalifa ha rotto con al-Qaida giurando fedeltà al califfo al-Baghdadi e uccidendo il 24 settembre l’ostaggio francese Hérve Gourdel; nelle Filippine è stata Abu Sayyaf a minacciare l’uccisione di due tedeschi. E mentre al-Qaida appare più debole, sempre più formazioni uniscono la loro causa a quella del califfato, un polo di riferimento di giorno in giorno più importante per la galassia jihadista. A inizio settembre 2014, al-Zawahiri ha rilanciato con l’annuncio della nascita di un ramo di al-Qaida nel Subcontinente indiano, che dovrebbe agire dall’India fino al Myanmar: secondo gli esperti, anche un messaggio allo Stato Islamico rispetto a cui al-Qaida ha perso terreno.
La galassia jihadista e i paradigmi del jihadismo paiono dunque in via di rimodulazione e ridefinizione, adattandosi alle contingenze geopolitiche e modificandole allo stesso tempo.
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